Le disuguaglianze sono un problema politico (e di teoria economica). Il tema è tornato di moda

La comprensione della natura incorporata e istituzionale delle disuguaglianze porta a conseguenze notevoli sulla politica economica. Se è condivisibile e anzi auspicabile una tassa mondiale sulla ricchezza come quella proposta da Piketty, allo stesso tempo ciò non basta. È necessario intervenire sulle istituzioni, soprattutto quelle riguardanti il mondo del lavoro. Potenziare gli strumenti di pre distribuzione

Ecco, in sintesi, i principali passaggi di un articolo firmato da Mattia Marasti (Kritica Economica).

Da qualche anno le disuguaglianze sono tornate a essere un tema scottante tanto all’interno del dibattito politico quanto di quello economico. Per lungo tempo, tuttavia, la teoria economica mainstream (si pensi ad esempio ai teoremi dell’economia del benessere) si è dimostrata più interessata a questioni di allocazione. Ossia descrive come gli agenti, all’interno di un sistema di prezzi dati, raggiungono un equilibrio paretiano. Un concetto che non tiene conto della distribuzione e dei suoi effetti sulla società sottostante all’economia e, di conseguenza, sulla crescita economica.

Gli alfieri del neoliberismo, come Margaret Thatcher, hanno sostenuto che le disuguaglianze non sono un problema quando il livello di prosperità è tale da garantire a tutti elevati standard di vita. Il vero problema, quindi, non sarebbero le disuguaglianze ma la povertà. E secondo l’economista Bob Lucas, tra i padri della macroeconomia neoclassica e della teoria delle aspettative razionali, “il potenziale per migliorare la vita dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione attuale non è niente in confronto al potenziale apparentemente illimitato di aumentare la produzione”.

In uno studio dell’IMF Cordoba e Verdier, tuttavia, mostrano come i costi della disuguaglianza surclassino i benefici della crescita. E una survey dell’Ocse individua una correlazione positiva tra disuguaglianza e crescita economica più flebile. Ma tra i lavori che più di tutti hanno contribuito a stimolare il dibattito vi è “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty. Il matematico-economista nota che l’andamento delle disuguaglianze nei paesi occidentali hanno seguito un trend discendente fra la II guerra mondiale e gli anni ‘70, per poi tornare a crescere raggiungendo i livelli dei primi del Novecento.

La spiegazione per questo fenomeno avanzata da Piketty si cela dietro la disuguaglianza r>g: il tasso di rendita del capitale (r) è maggiore della crescita economica (g). La rendita frutta di più rispetto ai redditi da lavoro. Questa dinamica, che si era parzialmente invertita nel dopoguerra, è ricomparsa dopo gli anni della crisi petrolifera e l’avvento del neoliberismo nei paesi anglosassoni.

Questa spiegazione, che vede quindi nelle dinamiche capitaliste l’emergere delle disuguaglianze, non tiene però conto di aspetti politici-istituzionali. Eppure in Europa le disuguaglianze sono state in qualche modo tenute a bada dall’eredità del welfare state costruito nel dopoguerra. Quindi, in virtù di un elemento istituzionale.

Venendo ai nostri giorni, come reazione alla modellistica fine a se stessa dell’economia mainstream, ha preso piede in questi ultimi anni il movimento dell’economia cosiddetta ‘post-autistica’, che evidenzia gli effetti della struttura dei network. Quanto le disuguaglianze siano influenzate dalle reti sociali è ad esempio emerso anche durante la pandemia.

Ecco allora che la comprensione della natura incorporata e istituzionale delle disuguaglianze porta a conseguenze notevoli sulla politica economica. Se è condivisibile e anzi auspicabile una tassa mondiale sulla ricchezza come quella proposta da Piketty, allo stesso tempo ciò non basta. È necessario intervenire sulle istituzioni, soprattutto quelle riguardanti il mondo del lavoro. Potenziare gli strumenti di pre distribuzione

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