Già prima del 7 ottobre scorso (giorno dell’attacco di Hamas), l’economia israeliana non navigava in acque tranquille: oltre all’indebolimento del sistema giudiziario e alle continue crisi di governo, preoccupavano l’aumento dell'inflazione post-Covid e il rallentamento degli investimenti nel settore tecnologico, che rappresenta il 48 per cento delle esportazioni del paese.
La guerra ha ulteriormente aggravato le difficoltà, con un crollo degli investimenti del 61 per cento nelle startup e un impatto significativo sulle imprese hi-tech della chiamata alle armi di migliaia di programmatori e operatori specializzati.
La guerra sta inoltre mettendo a dura prova lo shekel, la moneta nazionale, ai minimi da 14 anni e sempre più volatile. La Banca centrale in Israele ha adottato misure senza precedenti per contrastare la svalutazione, iniettando miliardi nel mercato, ma senza grandi risultati. Sul fronte del mercato azionario, l’indice principale della Borsa di Tel Aviv, il TA-35, è sceso di quasi il 20 per cento rispetto ai massimi. Inoltre, il settore immobiliare, già in difficoltà a causa dei tassi di interesse elevati, è sull’orlo del collasso.
Nonostante tutto, la Banca centrale rimane fiduciosa e ha ritoccato le previsioni di crescita per il 2023 dal 3 al 2,3 per cento, oltre a stanziare cifre rilevanti per stabilizzare la moneta domestica.
Tradizionalmente, l’economia israeliana (che può comunque contare un rapporto debito/Pil sotto al 70 per cento) si è dimostrata resiliente nei conflitti. La Banca centrale ha calcolato che la guerra del 2014 a Gaza è costata appena l’0,4 per cento del Pil, mentre la guerra del 2006 in Libano 0,5 per cento.
Questa volta, tuttavia, è in atto un’invasione di terra e un assetto internazionale che potrebbe rendere la protezione statunitense meno solida che in passato. Una guerra di lungo corso potrebbe stavolta risultare ben più costosa di quelle passate e rischia di far cambiare idea agli israeliani, anche tra quelli che ora sostengono l’azione promossa da Netanyahu.