Un summit per salvare l’Amazzonia. Il risultato non è però all’altezza delle aspettative fissate dal suo promotore, il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula. Dal vertice dell’8-9 agosto è sbocciata un’alleanza tra le nazioni nelle quali si estende il più grande polmone verde del mondo, ma fallisce il tentativo di fissare al 2030 la fine della deforestazione.
Quello tra Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela è stato il primo vertice dal 2009 tra gli otto Stati che compongono l’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica. Tra gli invitati c’erano anche i leader di Paesi che ospitano le altre foreste pluviali del pianeta, come Indonesia, Congo e Repubblica del Congo. Ma anche Norvegia e Germania, che hanno finanziato progetti per la conservazione dell’Amazzonia, e la Francia, che controlla il territorio amazzonico della Guyana francese.
Per la delusione di Lula, che come detto ha spinto per l’obiettivo di impegnarsi a fermare la deforestazione entro il 2030, la dichiarazione congiunta rilasciata l’8 agosto a Belem non va oltre la creazione di un’alleanza per combattere la distruzione delle foreste, lasciando ai Paesi la possibilità di perseguire i propri obiettivi individuali.
Il presidente colombiano Gustavo Petro sta nel frattempo spingendo altri paesi ad aderire al suo impegno di vietare tutte le nuove esplorazioni petrolifere, un argomento spinoso appunto per il Venezuela, ricco di petrolio, e per lo stesso Brasile, la cui compagnia petrolifera statale, Petrobras, sta cercando di esplorare nuovi blocchi offshore alla foce proprio del Rio delle Amazzoni. Dinamiche contrapposte che spiegano la difficoltà di trovare un’intesa.
Eppure, la foresta amazzonica rappresenta il principale polmone verde della Terra: con il suo potere di assorbire anidride carbonica e rilasciare ossigeno, è in grado di influenzare il clima del pianeta. Anni di sciagurato sfruttamento hanno portato alcune sue regioni sull’orlo del punto di non ritorno, oltrepassato il quale rischiano di perdere la capacità di autorigenerarsi; in pratica, gli alberi morirebbero e rilascerebbero carbonio anziché assorbirlo, con conseguenze catastrofiche per il clima.
L’allarme è stato lanciato già numerose volte. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul Brasile, che da solo ospita oltre il 60 per cento dell’Amazzonia, che nel suo complesso è sede di circa il 10 per cento della biodiversità terrestre, di cinquanta milioni di persone e di centinaia di miliardi di alberi; insomma l’Amazzonia è un serbatoio vitale di carbonio, che riduce il riscaldamento globale.
Che qualcosa in Brasile stia tuttavia cambiando lo dicono i dati ufficiali. Nei primi sette mesi dell’anno, la deforestazione amazzonica nella prima economia dell'America Latina è crollata del 42 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022. Nel solo mese di luglio, la riduzione è stata del 66 per cento. Dati che tuttavia non trovano un riscontro nel summit, che ha deluso le aspettative. L’unico fatto (relativamente) concreto è aver chiesto ai paesi ricchi di contribuire alla riparazione (almeno parziale) del danno, visto che hanno quantomeno contribuito a crearlo.