“La settimana lavorativa di 4 giorni mi sembra un’ottima idea, ma spetta alle parti sociali decidere. Molte aziende in tutta Europa, anche nel Regno Unito, l’hanno adottata. C’è uno studio che dice che dove è stata introdotta sono diminuite le assenze, l’atmosfera è migliore e la produttività è aumentata”. A sostenere l’ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro è Nicolas Schmit, Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, in un incontro avvenuto nei giorni scorsi al Festival dell’Economia di Torino.
C’è un dettaglio, mancante in questa dichiarazione, che fa la differenza. Il passaggio alla settimana corta è a parità di salario? È nella risposta a questo interrogativo che si nasconde la questione centrale. Mentre nel caso ad esempio britannico (nel Regno Unito c’è stata una recente sperimentazione sulla settimana corta) non sembrano esserci dubbi sul fatto che i livelli retributivi debbano restare immutati, un fattore quest’ultimo che probabilmente rende possibile l’aumento della produttività rilevato in vari studi ed analisi, in altri Paesi come ad esempio Belgio e Italia si fa strada l’idea che i salari debbano essere progressivamente ridotti.
Messa così, non si tratterebbe di un effettivo cambiamento strutturale del mercato del lavoro: la riduzione dei giorni settimanali in cui si lavora (da 5 a 4) dovrebbe essere infatti derubricata sotto la voce ‘nuove forme di flessibilità’. Non c’è dubbio in merito al fatto che poter contare su orari più flessibili e soprattutto in un giorno di lavoro in meno la settimana possa favorire la conciliazione tra vita professionale e familiare, affermando il principio che si lavora per vivere e non il viceversa. Ma la chiave di volta resta lo stipendio, soprattutto in un Paese (l’unico Stato europeo) dove i salari sono diminuiti anziché aumentare nel corso degli ultimi trenta anni.
Ecco allora che la riduzione della settimana lavorativa da 5 a 4 giorni può rappresentare effettivamente un plus (anche per le imprese che possono contare, come già evidenziato, su un incremento della produttività) solo se accompagnata al mantenimento dei medesimi livelli retributivi. Come suggerisce, infatti, il sondaggio ‘People at Work 2023’ condotto da Adp e pubblicato su Le Monde, il desiderio di flessibilità si colloca solo al quarto posto tra i criteri che contano per i lavoratori in Francia: il primo è appunto la remunerazione.
Dietro lo slogan generale di “settimana di quattro giorni” si nascondono dunque modelli differenti. In sintesi, il primo è una settimana di quattro giorni in senso stretto, cioè una riduzione delle giornate di lavoro accompagnate da una contrazione dell’orario di lavoro a parità di salario settimanale/mensile: per esempio, 32 ore su quattro giorni invece di 40 su cinque, potendo contare sulla stessa busta paga.
Il secondo modello è quello di una rimodulazione delle 40 ore su quattro giorni o, comunque, di un allungamento dell’orario di lavoro giornaliero nei quattro giorni, sempre a parità di salario. È quanto ha fatto il Belgio lo scorso anno: ora le 38 ore di lavoro settimanale sono spalmate su quattro giorni invece di cinque, il che significa 9 ore e mezza di lavoro al giorno.
Anche in Italia qualcosa si muove, ma in quale direzione si va? La sperimentazione avviata, ad esempio, da Intesa Sanpaolo è una forma ibrida tra i due modelli: si riducono le ore, ma di poco (da 37,5 ore settimanali su cinque giorni a 36, cioè 9 per quattro giorni). Pure la proposta di Lavazza è ibrida, con una settimana di 4 giorni e mezzo (quindi di fatto tagliando ore ma non giorni).
Ci sono poi altre due modalità: la prima è quella di accompagnare la riduzione delle ore/giorni di lavoro con un conseguente taglio salariale. Ma si tratta di un meccanismo che già esiste e si chiama tempo parziale (una forma di cui l’Italia abusa soprattutto nell’ambito dell’occupazione femminile). La seconda è quella di una diminuzione delle ore/giorni di lavoro accompagnata da un incentivo pubblico per mantenere gli stessi salari senza gravare sulle imprese. Anche questo modello già esiste e, almeno per periodi (in teoria) temporanei di transizione, si chiama cassa integrazione.
A ciò si aggiunga che la letteratura scientifica smentisce che la settimana di 4 giorni possa giovare sul piano dei livelli occupazionali, ma chi la propone insiste soprattutto sui benefici in termini di produttività e conciliazione vita-lavoro. È effettivamente così? È lecito aspettarsi effetti positivi su questi aspetti nel caso di riforme che tagliano un giorno di lavoro? Da un punto di vista teorico, nel caso della riduzione dell’orario ci sono ragioni per attendersi un aumento della produttività per ora lavorata. Ma non è altrettanto certo che lo stesso avvenga nel caso della redistribuzione dell’orario di lavoro. Può essere, infatti, che aumentare l’orario giornaliero (per ridurre il numero di giorni settimanali) vada a scapito sia della produttività che della conciliazione vita-lavoro.
In conclusione, l’idea di una settimana di quattro giorni è assolutamente considerabile. Ma nell’unica forma in cui non si trasforma in uno svantaggio per i lavoratori, ma anche per le imprese (se l’obiettivo è l’aumento della produttività), ovvero la riduzione della settimana lavorativa da 5 a 4 giorni, associata al taglio dell’orario settimanale di lavoro e al mantenimento del medesimo livello salariale.