La produzione di energia da fonti rinnovabili sta crescendo a livello globale, soprattutto dopo la crisi energetica. Tale produzione, come noto, dipende dalla capacità di costruire gli impianti necessari a generare l’energia pulita, come per esempio i pannelli solari e le batterie.
Attualmente, la capacità di produzione di queste tecnologie è particolarmente concentrata geograficamente, con Cina, Stati Uniti, India e Unione europea che contano tra l’80 e il 90 per cento della capacità globale.
La Cina possiede la maggior parte della capacità manifatturiera legata a quasi tutte queste tecnologie: conta quasi l’80 per cento della capacità di produzione mondiale di impianti per la generazione di energia solare, il 64 di quella per gli impianti per l'energia eolica e il 76 di quella per la produzione di batterie.
Secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, le quote di produzione della Cina potrebbero diminuire per alcune di queste tecnologie entro il 2030. In ogni caso, un’alta capacità di produzione di tali impianti in un determinato Paese non si riflette necessariamente in una quota elevata di energia da fonti rinnovabili all’interno del mix energetico di quel Paese.
Tradotto, la Cina (che ad esempio continua a usare massicciamente il carbone) ha investito molto in quel settore, pensando evidentemente più che altro a venderle all’estero (creando possibilmente una dipendenza verso Pechino) piuttosto che destinarle soprattutto al mercato domestico.
La voce di quoted
La seconda economia al mondo ha investito massicciamente nel settore delle rinnovabili che, al momento, sembra rispondere più ad una logica di legittima politica industriale (e i relativi mercati di sbocco esteri) piuttosto che traghettare il più rapidamente possibile il proprio Paese in un mondo più green. L’Europa dovrebbe approfittare di prodotti a buon mercato (la cui produzione, laddove possibile, è invece più costosa nel Vecchio continente) per accelerare la propria transizione energetica oppure attuare politiche protezionistiche verso Pechino (peraltro con il sicuro placet statunitense)? Il problema è che qui si parla di politica industriale, un qualcosa che nel caso del Bel Paese latita da molti anni.