
Solo poche settimane fa il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro irlandese Micheál Martin hanno celebrato i tradizionali stretti legami tra i due Paesi alla Casa Bianca. “Non voglio fare nulla che possa danneggiare l’Irlanda”, affermò Trump all’epoca, riferendosi ai dazi punitivi da lui pianificati.
Nei giorni scorsi, tuttavia, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato sanzioni commerciali contro le importazioni di prodotti farmaceutici in un “futuro non troppo lontano”, indicando l’Irlanda come possibile obiettivo. Non c’è da stupirsi che il governo di Dublino non si fidi del “cessate il fuoco” di 90 giorni annunciato da Trump nella guerra commerciale globale e, secondo le parole di Martin, si sta “preparando al peggio”.
L’Irlanda è ancora sotto shock; nel giro di poche settimane, la Repubblica con la crescita più forte e i più alti surplus di bilancio nell’Ue si è trasformata: il pessimismo economico e la paura del futuro si stanno diffondendo. La retata tariffaria di Trump mette a repentaglio l’attuale modello economico, ha avvertito il premier Martin.
Per decenni, il modello di successo della Repubblica insulare si è basato sulla forte presenza di aziende internazionali, attratte da Dublino grazie al clima favorevole alle imprese, alla forza lavoro altamente qualificata e, soprattutto, alle basse imposte sulle società.
A causa della pressione internazionale, il governo ha aumentato l’aliquota dell’imposta sulle società dal 12,5 al 15% (ovvero nettamente al di sotto di quanto previsto mediamente negli altri paesi dell’Ue). Tuttavia, questo ha cambiato poco il modello di business dell’Irlanda.
Ma ora lo scenario potrebbe mutare rapidamente, rischiando di far tornare l’Irlanda a ciò che era prima di questa ventata di ricchezza portata dalle multinazionali alla spasimante ricerca di bassi livelli di tassazione.