Proponiamo la versione integrale dell’articolo sulla finanza firmato da Alessandro Messina e pubblicato da Sbilanciamoci.
Il debito globale, calcolato tenendo assieme quello dei governi, delle imprese e delle persone (o famiglie), è arrivato a pesare il 260% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Era al 100% nel 1970: per ogni euro (o dollaro) di produzione di beni e servizi, c’era una quantità equivalente di indebitamento; oggi è oltre due volte e mezza. In termini assoluti parliamo di circa 166 trilioni di dollari di debito mondiale, ossia 145 mila miliardi di euro.
Come era facile aspettarsi, l’indebitamento è cresciuto molto negli ultimi anni, soprattutto quello dei governi che hanno attinto ai mercati finanziari per affrontare la crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19. In misura addirittura maggiore a quanto fecero per reagire alla “Grande Crisi Finanziaria” del 2008.
Ora il debito pubblico, quello dei governi, pesa da solo il 100% del Pil mondiale. Era dai tempi del dopoguerra (1945-50) che non si arrivava a simili valori. Ma il sistema finanziario di oggi è molto diverso da allora. Infatti, la capacità degli stati di trasmettere all’economia reale le risorse raccolte indebitandosi è assai inferiore, mentre la concentrazione dei capitali è ben maggiore, dunque sono pochi – e grandi – i principali detentori di questo debito. Così, dove finisce questa ingente massa di denaro?
Una gran parte, in ciò che viene chiamato “speculazione”: l’80 per cento degli scambi sui mercati finanziari avviene con modalità automatiche ad alta frequenza, ossia transazioni che si aprono e chiudono nell’arco di pochi secondi, con una durata media di appena 81 microsecondi e una moda di soli 5-10 microsecondi, pari a meno di 1/10.000 del battito d’una palpebra. Tali scambi assorbono complessivamente la metà dei volumi transati, e si concentrano su pochissimi operatori (sei big ne gestiscono l’80 per cento).
E se la speculazione domina, i re dei mercati continuano ad essere gli investimenti in strumenti derivati, tornati a pesare per circa dieci volte il Pil mondiale (più o meno come ai tempi della Grande Crisi Finanziaria): circa 650 trilioni di dollari.
Insomma, in barba alle tante dichiarazioni sull’impact investing, la finanza insegue se stessa, per alimentare i suoi soliti canali, garantirsi guadagni più o meno facili e soprattutto rapidi. E si allarga la forbice tra il potenziale credito che si potrebbe destinare all’economia reale e quello effettivo: in Europa e Stati Uniti è ancora negativo (dal 2008) il gap tra il credito erogato e quello che servirebbe a sostenere il Pil.
Quando si investe in economia reale lo si fa – poco – alla ricerca dei mitici unicorni (cresce il flusso di risorse verso venture capital e private equity) o di nuovi Eldorado (il boom delle criptovalute).
In tutto questo, che fanno le banche? Hanno ancora capacità di sostegno all’economia? E le fintech? il microcredito? la finanza d’impatto e il crowdfunding? Sono vere risposte o solo effimere mode? Ancora: le criptovalute possono svolgere un ruolo utile, in attesa che arrivi l’euro digitale? La finanza sostenibile esiste veramente o è poco più di uno sberleffo alla società civile?