Soltanto qualche settimana fa il colosso BYD, divenuto a tempo di record il numero uno globale nella produzione di auto a batteria e ibride plug-in (obiettivo 4 milioni e +33% nel 2024), ha firmato un accordo con la Turchia.
Investimento da un miliardo di dollari, per un impianto vicino a Smirne. Via alla produzione (capacità 150mila veicoli l’anno) entro il 2026, con la creazione di 5mila posti diretti. Previsto anche un centro ricerca e sviluppo sulle tecnologie per la mobilità sostenibile.
La mossa di BYD segue quella messa a segno in aprile da Chery, altro player cinese di primo piano, da 21 anni consecutivi il maggior esportatore del Dragone: poco meno di 1 milione di veicoli all’anno. Chery ha scelto la Spagna, secondo produttore europeo, per una prima operazione: un ex impianto Nissan a Barcellona e una jv con un player locale. I posti di lavoro diretti attesi sono 1.250.
E l’Italia? Il Governo, per adesso, ha firmato dei Non disclosure agreement/MoU (si tratta di accordi di riservatezza il cui obiettivo è garantire che le informazioni, le idee o i dati rivelati da un’impresa a un’altra rimangano segrete e non vengano divulgate a terzi, secondo i termini e alle condizioni stabiliti nelle intese stesse) con Dongfeng, BYD e Ayways. Secondo la società di consulenza globale AlixPartners, l’installazione di una piattaforma produttiva da 150 a 200 mila veicoli all’anno potrebbe dare lavoro a 9-11 mila persone, tra dipendenti del costruttore e filiera. I benefici occupazionali potrebbero essere anche superiori considerando l’indotto indiretto, ad esempio i servizi.