Se la Russia non esistesse, gli Stati Uniti dovrebbero inventarla. Sembra una boutade, invece è la realtà storica. A Mosca più che a sé stessa, infatti, Washington deve molto della sua influenza esercitata anche in Europa, ragione e base dell’egemonia globale non spontaneamente conquistata nel 1945. Costretti a vincere una guerra che non avrebbero voluto combattere e cui non erano preparati, gli Usa ne trassero le conseguenze.
Nel 1941 gli Stati Uniti scoprirono che la loro salvezza dipendeva dalla salvezza dell’Unione Sovietica. Se le armate hitleriane l’avessero occupata e schiavizzata, sposando capacità, industria e organizzazione germaniche con materie prime russe, avrebbero ridotto l’Eurasia ai loro piedi. Il potere del Nord America sarebbe allora caduto in pericolo. Di qui l’allarme di Roosevelt e dei suoi apparati, costretti a cambiare strategia. Era meglio sostenere piuttosto che attaccare l’Unione Sovietica per evitare di farla finire nelle mani della Germania.
Durante la ‘guerra fredda’ fu anche questa consapevolezza a orientare i decisori statunitensi verso il contenimento, non la liquidazione del nuovo nemico russo.
Ora il problema si ripropone sotto un’altra forma. La crisi ucraina del 2014 e il conseguente passaggio di Kiev in campo avverso hanno convinto Mosca a meglio proteggere quel che resta del suo ‘impero’, a cominciare dalla traballante Bielorussia. E spinto il Cremlino ad allacciare una forzata ma utile cooperazione con la Cina a contrasto degli appetiti di Washington; oltre a una rischiosa amicizia con la Turchia targata Nato.
Il punto nodale è Pechino. Se la Russia crollasse, la Cina rischierebbe agli occhi degli Usa di divenire troppo forte. In economia si direbbe, ‘too big to fail’. Non è dunque nell’interesse di Washington ridurre ai minimi termini Mosca. La frattura con l’Ucraina (che potrebbe entrare nella Nato) e i rischi di una rivoluzione in Bielorussia potrebbero rivelarsi in tal senso fatali.