C’è un posto in Europa dove gli abitanti hanno i nervi a fior di pelle quanto coloro che vivono a Kiev. È Kaliningrad, la Russia fuori dalla Russia, l’exclave sul mar Baltico tra la Polonia e la Lituania, in tutto meno di 500 mila abitanti. E precisamente sono molto nervosi coloro che vivono a ridosso del corridoio di Suwalki, una striscia di terra lunga 104 chilometri che da Kaliningrad porta in Bielorussia e che viene descritto dagli esperti di cose militari come il tallone di Achille dell’Alleanza atlantica nell’Europa nord orientale. In caso di offensiva russa contro la Nato – dicono questi esperti – basterebbe a Mosca chiudere questo passaggio per isolare dal resto dell’Alleanza tutti e tre i Paesi Baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, con le relative truppe Nato stanziate sui loro territori.
La guerra, dopo Kiev, quindi potrebbe spostarsi qui, in qualunque momento. Ma facciamo qualche passo nella storia. Prima dell’era sovietica Kaliningrad (dal nome del presidente del Presidium del Sovietico Supremo Kalinin) si chiamava Koenisberg, la città dove nacque il filosofo Kant e che rappresenta la patria dell’ambra essendo il 90% del minerale del pianeta estratto qui, nonché il luogo dove l’ultimo comandante delle truppe naziste, Otto Lasch, firmò la resa all’esercito sovietico, il 9 aprile 1945. Ed era stata la capitale della Prussia orientale, un pezzo di Germania separata dalla Germania dopo la Prima guerra mondiale secondo il trattato di Versailles.
Seguì una massiccia politica di slavizzazione tanto che oggi, per dare l’idea, l’exclave viene chiamata “la piccola Russia”. Unico porto del Paese in cui il mare non ghiaccia mai, era il fiore all’occhiello della Marina Sovietica. L’implosione dell’impero nel 1991 ebbe conseguenze terribili: l’armata fu sciolta, mentre gli Stati vicini, Polonia, Baltici, tutti Paesi dell’Ex Urss, da amici si trasformarono in nemici.
Ma Mosca non sottovalutò il pericolo del disfacimento. Il primo presidente della nuova Russia, Boris Eltsin, riconoscendone il valore strategico, proclamò il territorio Zona Economica Libera (sugli aspetti fiscali e finanziari torniamo più avanti), denominata Jantar, cioè Ambra in russo, da una delle maggiori risorse della regione, come detto. Seguì la gelata. Nel 1999, Putin, allora Primo ministro, durante il Vertice Russia-Ue di Helsinki chiarì che d’ora in avanti per Kaliningrad ci sarebbe stata “un’occidentalizzazione strategica guidata da pragmatico nazionalismo”. Che voleva dire nessuna occidentalizzazione.
E poi arrivarono le crepe vere e proprie. Nel 2005 alla manifestazione per i 750 anni della fondazione di Koenigsberg, i Paesi vicini non furono invitati, né la Polonia né i Baltici, uno sgarbo al passato comune della città, visto che la ex Prussia orientale, di cui essa fu la capitale, alla fine della guerra fu divisa tra Russia, Polonia e Lituania. In seguito, nel 2012, dopo la guerra con la Georgia (2008) Putin decise di lanciare il programma di modernizzazione delle Forze Armate e Kaliningrad ne diventò il cuore rivivendo il destino di una nuova militarizzazione.
Ora a Kaliningrad è tornato il terrore. Palpabile quanto quello che scoppiò nel 2017, quando i vicini Polonia e Paesi Baltici, rafforzarono i loro sistemi di difesa, pensando che non si può non considerare la punta di diamante dell’attaccante. E non soltanto dal punto di vista geopolitico. I palazzi affacciati sul fiume Pregel, sull’isola di Oktyabrsky, nel centro di Kaliningrad, ospitano le sedi di alcune delle maggiori società russe controllate dagli oligarchi. L’isola, che un tempo era una palude, è ora un paradiso fiscale russo nel cuore dell’Europa. È qui che i miliardari russi colpiti dalle sanzioni hanno così messo al sicuro le società nelle aree offshore “domestiche” volute da Putin.