La Turchia, con una popolazione di oltre 84 milioni di abitanti, è da tempo sull’orlo di una profonda crisi: l’inflazione è altissima e la banca centrale è alle dipendenze di Erdogan. I tassi di interesse sono tenuti forzatamente bassi per stimolare l’economia. Tutto questo ha causato una cronica debolezza della lira turca, che secondo Erdogan è una condizione ottimale per incentivare le esportazioni. Il risultato finale è tuttavia stato un impoverimento della popolazione e del suo potere d’acquisto.
La confusione è aumentata quando, con l’avvicinarsi delle elezioni, Erdogan ha tirato fuori dal cilindro più di un coniglio. Scelte economiche e finanziarie populiste, che si sono rivelate presto controproducenti. A dicembre, il presidente turco ha abolito per decreto l’età pensionabile, introducendo una riforma particolarmente generosa. Erdogan ha poi dichiarato di voler aumentare ulteriormente (del 45 per cento) il salario minimo degli impiegati del settore pubblico (portandolo a 15mila lire; poco meno di 700 euro), che era già stato ritoccato sei mesi fa, in contemporanea con la riforma delle pensioni. Secondo numerosi osservatori, non sono misure adeguate in un contesto inflazionistico, perché nel tentativo di attenuare la perdita del potere d’acquisto della popolazione si alimenta l’aumento dei prezzi.
Oltre alla disastrata situazione economica (il Pil pro-capite sul finire dell’ultimo decennio si è assestato sotto la soglia dei 10mila dollari; fonte: My Data Jungle), nel frullatore turco troviamo un Paese geo-strategicamente vicino a Russia, Iran e Cina ma appartenente alla Nato, nel cui formato peraltro spicca come secondo esercito più grande (ovviamente dopo gli Usa), e in perenne scontro con l’Ue. L’unica nota di merito agli occhi di Bruxelles è aver favorito l’accordo sul grano nell’ambito della guerra Mosca-Kiev. Ma anche nella partita ucraina Erdogan propone il suo solito doppio gioco. Un gioco in cui il vincitore in alcuni casi è lui, ma quasi mai la Turchia.