Pur partendo da situazioni simili Italia e Corea del Sud hanno in seguito diversificato le loro strategie per far fronte all’emergenza coronavirus.
Entrambi i Paesi hanno scoperto presto - e su iniziativa di singoli medici che avevano agito contraddicendo l’Oms che propendeva per eseguire i test solo sui viaggiatori provenienti dalla Cina - che il virus aveva cominciato a diffondersi.
Inizialmente i due Paesi hanno iniziato facendo i tamponi agli ammalati, ma anche ai soggetti entrati in contatto con i primi soggetti infettati.
Anche i tassi di letalità all’inizio erano simili. Poi però è iniziato il divario. Perché? L’Italia a un certo punto ha smesso di puntare ad individuare quanti più malati possibili (con l'eccezione del Veneto), ma si è limitata a registrare i più gravi scegliendo di concentrarsi sulla strategia delle ‘zone rosse’ e del ‘io resto a casa’ con l’obiettivo di rallentare il più possibile la pandemia per dare tempo alle strutture ospedaliere di ‘respirare’.
La Corea del Sud ha invece adottato una strategia ‘investigativa’, ovvero cercare di individuare quanti più casi possibili per andarli a prendere uno a uno e isolarli. Quindi hanno fatto tamponi anche agli asintomatici purché sospettati di essere potenziali veicolatori. Risultato: più controlli, più contagiati, meno decessi. Il tasso di letalità (che non va confuso con quello di mortalità) risulta così pari allo 0,8% in Corea del Sud e prossimo al 6% nel nostro Paese.
L’andamento coreano rappresenta una buona o una cattiva notizia? Da una parte cio’ potrebbe significare che è possibile portare a livelli molto bassi la letalità del virus, dall’altra potrebbe suggerire che il reale numero dei contagi in Italia è notevolmente sottostimato.