Il partito conservatore britannico ha subìto alle elezioni del 4 luglio la sua peggiore sconfitta dal 1906, pagando (secondo molti osservatori) a caro prezzo la Brexit.
Dopo aver illuso i cittadini che fosse possibile un ritorno a tempi gloriosi, l’uscita dall’Ue ha provocato un declino del tenore di vita della popolazione, tanto che oggi il Regno Unito registra la crescita più debole tra i paesi del G7 e il 65 per cento dei britannici ritiene che la Brexit sia stato un errore.
Allo stesso tempo, la Brexit ha sciolto come neve al sole i progetti di chi voleva imitare i britannici. Di Italexit, Polexit, e Frexit oggi nessuno ne parla più. L’obiettivo è ora assumere il controllo dell’Unione dall’interno.
L’altra conseguenza della Brexit è che il partito laburista ha ottenuto una delle vittorie più schiaccianti della sua storia, senza fare altre promesse se non quella di ripristinare una certa ortodossia economica.
Per riuscirci, i laburisti hanno dovuto sostituire un leader radicale dai comportamenti discussi come Jeremy Corbyn con il moderato Keir Starmer, tornando così a essere un partito di governo.
Infine, un dettaglio che sembra contraddire quanto scritto nel primo capoverso di questo articolo: il neo-premier Keir Starmer ha detto che non ha alcuna intenzione di tornare indietro rispetto alla Brexit.
A questo punto, le cose sono due: o gli elettori britannici non hanno colto quest’ultimo dettaglio (ovvero il fatto che i laburisti non hanno l’obiettivo di ribaltare l’esito referendario del 2016) oppure la Brexit non la è vera causa (diretta) del crollo conservatore.