Nel 1970, il piccolo stato insulare del Pacifico di Nauru è stato per breve tempo uno dei paesi più ricchi del mondo. Il suo reddito pro capite era pari a quello dell’Arabia Saudita, solo che questa ricchezza non era costruita sul petrolio, ma sulle feci. Per millenni, infatti, gli uccelli marini di passaggio hanno depositato i loro escrementi sull’isola, creando una spessa crosta di guano ricco di fosfati, pronto per essere trasformato in fertilizzante.
La fortuna non è tuttavia durata a lungo: il guano è stato definitivamente raschiato circa 20 anni fa. Ora Nauru, non più sporca e ricca, è il primo motore di un’altra, anche questa controversa, spinta verso lo sfruttamento delle risorse. A partire dallo scorso anno, il paese sta cercando di avviare l’estrazione mineraria in acque profonde nel Pacifico, forse già nel 2023.
Questa vicenda rappresenta un microcosmo di una storia molto più ampia. Mentre le pressioni sulla terra del nostro pianeta crescono e le risorse vanno esaurendosi, i governi e alcune grandi aziende infatti si stanno sempre più concentrando sulla cosiddetta ‘blue economy’.
Che si tratti, ad esempio, di esplorazione mineraria, spedizioni commerciali, energia, turismo, desalinizzazione, posa di cavi, le industrie oceaniche stanno accelerando. Uno sprint che però desta preoccupazione, visto che trarre profitto dalle risorse oceaniche avviene in ambienti (appunti quelli marini) che sono per nulla o poco regolamentati. Una sorta di ‘liberi tutti’ in profondità, di cui ora non ci accorgiamo ma che presto ci presenterà un conto salato, quello sì ben più dell’acqua marina.