Ogni Ceo che pensi di poter vincere la guerra per i talenti offrendo soldi, telelavoro e un abbonamento alla palestra rimarrà deluso. L’era del conscious quitting è alle porte.
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Prima è arrivata la Great resignation, un fenomeno che ha visto, soprattutto negli Stati Uniti, numeri significativi di persone lasciare il proprio posto di lavoro in cerca di una nuova occupazione, possibilmente più confacente rispetto ai propri bisogni. Poi è giunto il quite quitting, ovvero il ridurre al minimo il proprio impegno sul lavoro, pur mantenendo il proprio posto (comunque necessario ai fini del proprio sostentamento). Ora starebbe iniziando l’era del conscious quitting.
“Ogni amministratore delegato che pensi di poter vincere la guerra per i talenti offrendo un po’ più di soldi, un po’ più di telelavoro e un abbonamento alla palestra rimarrà deluso. L’era del conscious quitting è alle porte”, si legge nel rapporto dal titolo 2023 Net Positive Employee Barometer pubblicato a febbraio scorso da Paul Polman (che ha ricoperto per molti anni ruoli apicali in grandi aziende globali, come Procter & Gamble e Nestlé. Dal 2009 al 2019 è stato amministratore delegato di Unilever).
Il rapporto è il risultato di un sondaggio online condotto dal centro di ricerca Opinium su 4mila persone, 2mila britanniche e 2mila statunitensi, impiegate in aziende di dimensioni medio-grandi. E il risultato è chiaro: la metà di loro dichiara di considerare l’idea di lasciare il proprio posto di lavoro in cerca di un impiego che corrisponda ai propri valori. Il 33% dichiara di aver già lasciato la propria azienda per questo motivo. Dati che risultano ancora maggiori tra i Millennials e la Generazione Z.