
Nella narrazione politica, la globalizzazione e il commercio internazionale vengono spesso indicati come causa delle crisi industriali e della perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali, come l’industria pesante o automobilistica.
I dati sulla manifattura, però, sembrano raccontare una storia diversa: la diminuzione dell’occupazione in questo settore è un fenomeno diffuso che ha colpito tutte le principali economie avanzate, indipendentemente dalla loro posizione nella bilancia commerciale, cioè che siano esportatori o importatori netti.
Tra il 2003 e il 2022, la quota di lavoratori impiegati nel settore manifatturiero è diminuita in modo significativo ovunque: in Germania dal 23 al 18,9%, in Italia dal 22,5 al 18,5, in Francia dal 16,4 all’11%. Negli Stati Uniti è scesa da circa il 13% al 9,9%, mentre in Giappone dal 19,1 al 15,6%. La stessa tendenza si osserva in Canada e Spagna.
Eppure, la situazione commerciale di questi paesi è molto diversa: per esempio, nel 2024, la Germania ha registrato un surplus di circa 239,1 miliardi di euro (circa 261,1 miliardi di dollari), mentre gli Stati Uniti un deficit di 122,7 miliardi di dollari.
Questo conferma che il calo dell’occupazione nel manifatturiero non dipende direttamente o esclusivamente dal saldo commerciale, ma che le dinamiche sono molto più complesse. Ci sono fattori strutturali comuni, come l’automazione, che aumenta la produttività ma modifica la domanda di lavoro, e la crescita del settore dei servizi.
C’è anche la delocalizzazione verso paesi a minor costo del lavoro, che colpisce anche le economie più orientate alle esportazioni, non immuni da un processo di deindustrializzazione che coinvolge ormai gran parte del mondo avanzato.