Il dilemma di Trump

Puntare sulla riduzione del deficit commerciale oppure sul potere mondiale del dollaro? Due obiettivi che si autoescludono

Il dilemma di Trump

Il principale obiettivo di politica economica di Donald Trump è ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti, potenziando le esportazioni e diminuendo le importazioni. In tal modo, il Pil dovrebbe aumentare e l’occupazione domestica pure.

In realtà, la cosa è facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Il presidente eletto deve scegliere tra due alternative: ridurre il deficit commerciale oppure dare priorità al dollaro? Per far lievitare l’export, infatti, occorre una valuta più debole, che però vuol dire anche un peso minore del dollaro nel commercio globale (quindi una minore capacità del governo statunitense di usarla come mezzo di deterrenza verso altri paesi) e meno affari per Wall Street.

Nel sistema attuale i paesi del gruppo Brics, che mettono a segno enormi surplus commerciali grazie alle esportazioni, tendono a mettere al sicuro i loro ‘risparmi’ comprando attività finanziarie statunitensi: è questo afflusso di capitali dall’estero che rende il dollaro ancora più forte e stabile.

D’altronde, la moneta americana si è imposta come mezzo di pagamento standard nel commercio internazionale perché è stabile e anche perché gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo a offrire un accesso illimitato al suo mercato finanziario.

In pratica, tutto ciò si traduce nel fatto che Washington si trova a dover accettare un significativo deficit commerciale, perché la moneta forte rende più convenienti le importazioni e il ricorso all’indebitamento pubblico e privato.

Puntare a un dollaro più debole per rilanciare il Pil domestico, significa quindi che arriveranno dall’estero meno capitali, mettendo quantomeno in difficoltà il dominio mondiale del dollaro. Alla fine, Trump dovrà decidere cosa fare.

Resta il fatto che gli squilibri commerciali nell’economia globale esistono. Così come è vero che la Cina alimenta l’export senza incentivare la domanda interna (un po’ come ha fatto la Germania per anni verso i propri partner europei). Un fatto che innervosisce Stati Uniti ed Europa, ma anche gli altri membri del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).

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