Poco prima dell’avvio dell’assemblea generale dell’Onu (aperta il 21 settembre a New York) il segretario generale, l’ex primo ministro portoghese António Guterres, ha lanciato un appello contro una nuova guerra fredda, invitando Stati Uniti e Cina a riparare quello che ha definito un rapporto “completamente disfunzionale”.
“Dobbiamo evitare a ogni costo di ricadere in una guerra fredda, che sarebbe diversa dalla precedente e probabilmente più difficile da gestire e più pericolosa”, ha dichiarato il segretario all’agenzia Associated Press.
Al contrario, Joe Biden e Xi Jinping hanno adottato da tempo una logica conflittuale, come confermano le vicende degli ultimi giorni relative alla regione indopacifica.
È tuttavia un conflitto anomalo vista la forte integrazione economica tra Stati Uniti e Cina a differenza di quanto avvenne tra Usa e Urss. Oggi Apple, Tesla e General Motors investono in Cina. È ancora in piedi, al contempo, il blocco delle esportazioni tecnologiche sensibili verso la Cina deciso da Donald Trump e nei giorni scorsi è stata creata alla Aukus, l’intesa tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia.
Un clima da guerra fredda si respira in qualche modo anche all’interno dell’Onu. Al Consiglio di sicurezza cinque paesi dispongono di un diritto di veto, eredità del 1945 e delle dinamiche volute dai vincitori della guerra: Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito e Russia. Nei periodi di forte tensione ognuna delle grandi potenze ricorre al veto per proteggere i suoi alleati, ignorando l’obiettivo dell’Organizzazione, ovvero conservare la pace e la sicurezza nel mondo.
Il risultato è che, nonostante siano in corso nel mondo diversi conflitti, dalla Birmania alla Bielorussia e all’Ucraina, dalla guerra in Yemen a quella in Etiopia, l’Onu è costretta a limitarsi quasi esclusivamente agli interventi umanitari, un aspetto essenziale ma non sufficiente per risolvere le crisi.