Gli Stati Uniti hanno radunato i ministri della Difesa di oltre quaranta alleati nella base americana di Ramstein (Germania) per allineare l’invio di armamenti in Ucraina.
Occorre evidenziare che non ci fossero soltanto i membri della Nato, l’Ucraina e le candidate ad aderire (Svezia e Finlandia), ma pure paesi extraeuropei: fra gli altri, Giappone, Australia, Corea del Sud, Israele, Qatar, Kenya. Una eterogeneità che dà una dimensione dei confini dell’Occidente allargato che Washington sta serrando attorno a sé per farne strumento per vincere il braccio di ferro con la Russia (e spezzare l’asse di Mosca con la Cina).
Gli americani dicono che il tempo non è dalla parte dell’Ucraina e sollecitano gli alleati a spedire armamenti. Sono persino disposti a pagare per sostituire le armi che i vari paesi inviano a Kiev, come annunciato in questi giorni con i 400 milioni di dollari circa stanziati proprio a questo scopo.
La pressione è tale che pure la Germania ha dovuto adeguarsi. Poco prima della riunione, il governo tedesco ha annunciato l’invio di sistemi antiaerei corazzati, una quarantina di Gepard da una decina d’anni non più operativi e il futuro addestramento in Germania di militari ucraini.
A sollecitare è anche il Regno Unito, sempre più realista del re: come il premier Boris Johnson ha anticipato gli americani nel visitare Kiev, così ora un suo sottosegretario delle Forze armate fa sapere che Londra non ha problemi se l’Ucraina usa armi britanniche per colpire in territorio russo “obiettivi legittimi”. Senza dubbio, è un modo per influenzare gli Stati Uniti e per parlare a nome dei paesi dell’Europa orientale, che per settimane hanno premuto su Washington per irrobustire l’approccio alla guerra.