Il mandato di Mario Draghi volge al termine. Dal primo novembre prenderà il suo posto Christine Lagarde, ex direttore dell’Fmi. Il governatore sperava probabilmente di lasciare l’incarico in condizioni macroeconomiche migliori per l’Eurozona. Ma così non è. A tal punto che nella riunione del board Bce del 12 settembre prossimo, Draghi annuncerà nuove misure straordinarie per tentare di risollevare l’anemica economia europea. Tra queste, la ripresa massiccia del quantitative easing e il taglio dei tassi di interesse. Ma anche altre misure potrebbero essere adottate.
Se confermata, si tratta di una buona notizia perché grazie alle politiche iperespansionistiche le principali economie avanzate hanno attutito l’urto con la recessione globale. Ma al contempo è una cattiva notizia visto che tende a riprodurre il sistema strutturale di sempre. Mi spiego. Gli acquisti di titoli (previsti dal Qe) avvengono in proporzione alla quota posseduta da ciascuna Banca centrale presso la Bce. E visto che Berlino detiene una fetta ben maggiore rispetto alla nostra, il Qe si traduce anche in un maggior acquisto di titoli tedeschi, che già da tempo navigano in territorio di tassi di interesse negativi. Quindi, comprare più titoli italiani significa anche comprare più titoli tedeschi con il rischio di far scendere ulteriormente i tassi (negativi) applicati sui titoli emessi da Berlino.
Ecco allora che emerge una doppia anima del Qe: ha probabilmente contribuito alla tenuta dell’Eurozona (fino ad ora) ma la Bce – nonostante sia a Francoforte o forse proprio per quello - non è riuscita a convincere la Germania sull’unica soluzione possibile: la condivisione dei rischi tra i paesi europei, ovvero la precondizione verso una piena Unione monetaria. A quel punto sarebbe, ad esempio, possibile mirare gli acquisti di titoli laddove è più necessario, verso i paesi in maggiore difficoltà. Una sorta di Qe più “ democratico”.