L’1% di crescita economica osservato nel 2017 è stato il primo anno di espansione dal 2014: è il Brasile ma questo non significa che l’economia sia in buona salute.
È un paese iniquo e diseguale, che ha deluso le attese negli ultimi 10 anni. Sembrava promettere di poter dominare il mondo con il gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Invece, ad eccezione delle due economie orientali, hanno tutte deluso le attese.
A cominciare dal costo della vita. Ad esempio una Toyota Corolla in Brasile, che produce il veicolo, costa più di 45mila dollari. Il prezzo scende a 30mila in Messico e a 20mila negli Stati Uniti. I servizi di telefonia mobile sono quasi due volte più costosi al minuto di quelli in Argentina e otto volte rispetto agli Usa.
Sul piano commerciale le cose non vanno meglio. Il Brasile pone alte tariffe sui beni importati, circa il doppio della Cina e quattro volte gli Stati Uniti. È una politica che non ha dato buoni frutti. Considerando i livelli di import-export come quota del Pil, il Brasile è oggi il paese meno aperto tra quelli Ocse.
Ma è osservando il bilancio pubblico che si intuisce quanto il paese sia in difficoltà. Nel 2016 ha destinato il 16% del bilancio per gli interessi sul debito pubblico. Si tratta della seconda voce di spesa, superata soltanto da quella per le prestazioni sociali (35%) e, in particolare, le pensioni, che in Brasile sono generose con i dipendenti pubblici, liberi di lasciare il lavoro intorno ai 55 anni. La spesa per l’istruzione e per la sanità sono entrambe al 12%. Le risorse che restano per gli investimenti sono poche, troppo poche.
E la politica sembra latitare. Due presidenti del Partito dei lavoratori, Lula da Silva dal 2003 al 2011 e Dilma Rousseff fino al al 2016, quest’ultima anche economista e rimossa per impeachment, si sono resi protagonisti ma principalmente di vicende giudiziarie.
Nonostante ciò le stime sul Pil, 2,2% quest’anno e 2,4% nel 2019, raccontano di una forte ripresa. Ma nascondono un “walking-dead”.