Pianificazione strategica? Competitività? Meglio i bonus, anche se sono veleno per la concorrenza e i mercatisti, comportando una grave perdita di terreno rispetto agli altri partner europei, che a differenza dell’Italia abbozzano qualche forma di politica industriale.
La Francia, aggirando le normative di Bruxelles, ha favorito sistematicamente l’affermarsi dei cosiddetti “campioni nazionali” e ha messo in campo scelte strategiche di specializzazione competitiva fin dall’immediato secondo dopoguerra, quando scelse di puntare sul settore della mobilità collettiva realizzando una serie di proposte vincenti; che vanno dall’aereo passeggeri per le tratte di media distanza “Caravelle” al treno veloce (TGV), passando per le metropolitane automatizzate arrivando alla partnership europea ma ubicata nell’Esagono dell’Airbus.
La Spagna promuove crescita attraverso le programmazioni strategiche di territorio: la strada scelta per uscire dalla crisi di de-industrializzazione perseguita pioneristicamente da Barcellona, con il suo piano realizzato già negli anni Ottanta. Si trattava di un intervento pianificatorio di taglio politico in cui tutte le risorse urbane – pubbliche o private che fossero – partecipavano alla messa a punto di un action-set di riqualificazione delle vocazioni di territorio, rese operative attraverso adeguati interventi di infrastrutturazione. In questo modo la città catalana è diventata il polo meridionale della logistica europea. Oggi evolutosi nel sistema dei porti mediterranei spagnoli che integrano – con Barcellona – Valencia, Tarragona e Algeciras.
Anche la Germania, che a fine anni ’90 era considerato il ‘malato d’Europa’, si è data una mossa. In base agli accordi raggiunti tra le parti sociali (in particolare la IG Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici, e le associazioni datoriali), Berlino ha scelto di concentrare le proprie produzioni nella fascia di alta gamma, offrendo al mercato prodotti di riconosciuta qualità, tale da giustificare quei prezzi necessari per remunerare con salari adeguati maestranze di elevata professionalità. E il resto lo si va a produrre nei paesi alla periferia del sistema industriale; nell’Est europeo.
A fronte di tutto ciò, che altro non è che forme di politica industriale, l’Italia si è fermata ai bonus e agli illusionisti che propongono ‘pacchetti’ dono. E se anche i liberisti come Colao e Cingolani, ministri importanti del governo Draghi, non si oppongono allora davvero i conti non tornano: non ci vuole un Premio Nobel per comprendere che i bonus e gli incentivi sono fortemente distorsivi del mercato e della libera concorrenza.
Occorre poi considerare il fatto che a partire dal secondo dopoguerra l’Italia ha basato sull’export le proprie fortune economiche, occupazionali e sociali, e da tempo ha deciso di puntare quasi tutto sulle ‘3 effe’: food, fashion, furniture; cibo, moda e arredamento. Prodotti a modesto contenuto innovativo e a bassa soglia di entrata per la riproducibilità da parte dei Paesi di nuova industrializzazione.