Si potrebbe dire che è come essere sulle “montagne russe”. L'economia della Russia è cresciuta rapidamente tra il 2000 e il 2007, salvo poi rallentare pesantemente dopo la crisi finanziaria globale del 2008-09, quindi risalire e, infine, sprofondare nella recessione a partire dalla metà del 2014. E, successivamente, una debole ripresa nel 2017 (i dati del 2018 debbono ancora essere diffusi).
Una serie di fattori a breve termine hanno causato la recessione: prezzi del petrolio più bassi, conflitto con l'Ucraina e sanzioni inflitte da Ue e Stati Uniti. Tuttavia le difficoltà dell’economia, o meglio le enormi inespresse potenzialità, affondano le radici a cominciare dagli anni ’90. Giusto per avere un’idea degli ordini di grandezza: il Pil nominale a parità di potere d’acquisto tra Stati Uniti e Russia è stato pari, rispettivamente, a 6 trilioni di dollari e 517 milardi nel 1990 saliti poi a 20 e 1,6 trilioni nel 2017. La differenza tra i due paesi già ampia nel 1990 è, dunque, aumentata a distanza di 30 anni.
Secondo Marek Dabrowski del think tank britannico Bruegel, la Russia, oltre al breve periodo, dovrebbe guardare al lungo e affrontare i propri nodi strutturali: la dipendenza dal petrolio, un clima imprenditoriale ostile agli investitori esteri e una governance inefficace. E, rispetto a molti altri produttori di materie prime, la Russia sarebbe pure in una posizione migliore per diversificare l’economia, soprattutto grazie all’eccellente capitale umano di cui dispone e al deprezzamento del rublo.
Ciò che accadrà a breve termine dipenderà in larga parte dal prezzo del greggio e dal conflitto ucraino. Anche se il punto più importante resta la deriva autoritaria nella politica interna, oltre ai rapporti geopolitici con l'Ovest e i paesi vicini ai confini russi.