La presenza del metano in atmosfera sempre più massiccia e pesante: su 50 miliardi di tonnellate di "equivalente di anidride carbonica", che intrappola il calore e contribuisce al surriscaldamento globale, il 70% è formato da C02 mentre la metà dei restanti 15 mld di tonnellate è metano.
Il metano è un potente cacciatore di calore e, rispetto all’anidride carbonica, una sua molecola ha un effetto di riscaldamento (calcolato su 100 anni) 25 volte più alto: quindi è fondamentale ridurre le sue emissioni per rispettare l’obiettivo di contenere entro i 2°C l’aumento della temperatura secondo l’accordo sul clima di Parigi del 2015. E capire perché negli ultimi anni c’è stata una sua forte crescita.
L’origine del metano è biologica, ma almeno il 20% di questa biologia è avvenuta molto tempo fa: il 20% di questo elemento presente in natura è fossile, mentre il restante 80% è prodotto da microrganismi che distruggono la materia organica, agenti metanogeni presenti nei terreni e nei tratti digestivi dei ruminanti e anche nell’uomo.
La presenza di metano in atmosfera non è omogenea: l’aria siberiana ne è ricca, così come le zone umide tropicali ma nel resto del mondo non si notano variazioni di rilievo. Le attuali misurazioni atmosferiche non sono complete né abbastanza capillari per mappare compiutamente il fenomeno, tanto che si sta pensando di creare un telerilevamento satellitare di metano dallo spazio.
L’industria del petrolio e del gas, con le sue estrazioni dal sottosuolo, può provocare “emissioni fuggitive” di metano che poi si riversano in atmosfera: secondo un calcolo di Stephen Pacala della Princeton University, se tutti i produttori mondiali di gas contenessero le perdite accidentali entro lo 0,2% anziché intorno all'attuale media superiore al 2%, ogni anno impedirebbero a 100 milioni di tonnellate di metano di entrare nell’atmosfera. Il problema va affrontato prima che sia troppo tardi.