Con il riscaldamento globale sempre più persone nel mondo patiscono condizioni climatiche insopportabili e il fresco sta diventando un bene sempre più richiesto. Non tutti, tuttavia, dispongono degli strumenti per difendersi in maniera adeguata dal caldo estremo. In altre parole, la crisi climatica sta facendo emergere una nuova forma di disuguaglianza: la cooling poverty, ovvero la povertà di raffrescamento.
A dare una definizione dettagliata di questo fenomeno è stato uno studio pubblicato l’anno scorso su Nature Sustainability.
La cooling poverty si differenzia dalla povertà energetica in quanto tiene in considerazione non solo la dimensione del reddito familiare, del costo dell’energia e delle condizioni abitative, ma tutta una infrastruttura fisica, sociale e intangibile che se non funziona pone le persone in una condizione di vulnerabilità al calore eccessivo.
Ad esempio, l’infrastruttura fisica è data non solo dai dispositivi tecnologici per il raffrescamento (avere a disposizione ventilatori o condizionatori) ma anche dalla presenza di aree verdi in città.
E infine all’interno dell’infrastruttura intangibile rientrano l’educazione e la conoscenza, ovvero quell’insieme di comportamenti e pratiche culturali che una comunità mette in atto per proteggersi dal caldo estremo.
Proprio a causa della sua natura multidimensionale, non esiste una misura univoca per quantificare la povertà di raffrescamento. È necessario ricorrere a una serie di indicatori che catturino i diversi fattori che possono determinare una situazione di cooling poverty per una persona o un gruppo di persone all’interno di una specifica area geografica.