Un report stilato da scienziati di 13 agenzie federali statunitensi, commissionato dal Congresso e reso noto nei giorni scorsi dalla Casa Bianca, contraddice Donald Trump e lancia un nuovo allarme: la trasformazione climatica danneggerà anche l'economia. Altro che bufala: l’aumento delle temperature è un fenomeno reale che rischia di avere effetti pesanti sulla prima economia al mondo con costi elevatissimi, nell'ordine di centinaia di miliardi di dollari: le perdite potrebbero arrivare fino al 10% del Pil, il doppio di quelle della Grande Recessione del 2008.
Al contrario, molti vedono, a cominciare dal presidente americano, le politiche a favore della tutela dell’ambiente come un ostacolo allo sviluppo e alle imprese private. Niente di più sbagliato. Piuttosto la necessità di andare verso un mondo più sostenibile pone una sfida ai fautori del libero mercato. In realtà, i soli mercati non possono far fronte alle "esternalità" che sorgono quando le attività economiche producono conseguenze dannose che non impongono alcun costo diretto né ai produttori, né ai consumatori. E il cambiamento climatico, tra le esternalità negative, è senza dubbio la più rilevante.
Sono, di conseguenza, necessari importanti interventi di politica pubblica, come la tassa sul carbonio, gli incentivi per ridurre le emissioni, i regolamenti che richiedono l’efficientamento di abitazioni, veicoli ed elettrodomestici, oltre ai sussidi alle nuove tecnologie finché non raggiungono le economie di scala che occorrono per produrre a costi “accettabili”.
Data l’opportunità di tali misure, la convinzione che il surriscaldamento della Terra sia un’invenzione è confortante per chiunque pensi che lo Stato non debba giocare alcun ruolo nell'economia. Non per caso il romanzo di Ayn Rand, Atlas Shrugged, che racconta un’imprenditorialità libera da vincoli ambientali e sociali, è uno dei preferiti dai negazionisti dell’innalzamento delle temperature.
Invece, le politiche pubbliche oltre ad essere essenziali per l’ambiente non rappresentano una minaccia per le imprese private, tantomeno per le aspirazioni delle economie in via di sviluppo. La dimostrazione è fornita da un rapporto della Energy Transitions Commission (ETC), che descrive come progettare un'economia globale a zero emissioni di carbonio entro il 2060 a “costi ridotti”. Sebbene ciò rappresenti una sfida avvincente, l’aspetto più interessante è un altro. Un’economia di questo tipo -secondo l’ETC - sarebbe più fiorente, in termini di occupati e volume di affari, di quella attuale dipendente dai combustibili fossili. Questo è particolarmente vero per i paesi emergenti come l'India. Il Subcontinente dovrà triplicare il proprio consumo energetico procapite annuo per raggiungere l’attuale tenore di vita dei paesi avanzati. Ma l’analisi dell’ETC mostra che New Delhy può riuscirci anche tagliando le emissioni di gas serra e riducendo drasticamente l’inquinamento atmosferico che soffoca le sue grandi città. E, soprattutto, senza dover costruire nuove centrali a carbone.
Il caso indiano ci riporta alle politiche pubbliche, che appaiono ineludibili. Ma è anche vero che le imprese private svolgono un ruolo strategico. Ecco allora che la concorrenza diviene uno strumento utile a garantire che la decarbonizzazione sia raggiunta al minor costo possibile.
D’altronde, le economie capitaliste hanno espresso le loro migliori fasi di crescita proprio quando le politiche pubbliche sono state calibrate con la concorrenza privata. Basti pensare al lungo periodo espansivo seguito al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, che estese il ruolo dello Stato nell’economia senza tuttavia ostacolare lo sviluppo imprenditoriale. Ecco allora che gli anni ’30 ci possono aiutare a credere che un’economia globale a zero emissioni sia possibile, e anche con più Pil e lavoro.
Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su LA STAMPA