I negoziati sono andati avanti fino all’ultimo alla COP26 di Glasgow. A un passo dal voto finale, India e Cina (spalleggiate da Sud Africa e Iran) hanno imposto un cambiamento: sul carbone, sostituire ‘phasing-out’ (eliminazione progressiva) con ‘phasing-down’ (diminuzione).
Il testo finale del Glasgow Climate Pact, la terza versione rimaneggiata ‘last minute’, è stata alla fine approvata: richiede ai 197 paesi presenti (più l’Ue) di “rivedere e rafforzare” gli obiettivi di tagli alle emissioni di CO2 per il 2030, gli stati sono chiamati a presentare dei nuovi piani a fine 2022 per rispettare l’impegno di mantenere il riscaldamento a 1,5 gradi a fine secolo. Ma c’è una scappatoia: “Tenendo conto delle differenti circostanze nazionali”, che lascia un margine di manovra ai riottosi per rallentare l’azione.
C’è comunque una prima volta: la messa al bando del carbone viene citata in un documento Onu, sebbene anche qui con delle attenuanti. Tuttavia il riferimento è soltanto all’“unabated coal”, cioè alle estrazioni che non hanno un “sistema di cattura di CO2” e mette lo stop soltanto alle “sovvenzioni inefficaci” per le energie fossili.
Il testo finale inoltre non integra la proposta di aprire un fondo speciale per “compensazioni” sulle “perdite e danni” dei paesi poveri, che non sono responsabili delle emissioni a effetto serra ma ne subiscono pesantemente gli effetti. Senza nessun obbligo formale, c’è solo l’impegno dei ricchi di “considerare un raddoppio” dei finanziamenti (che per i poveri si traducono in un aumento del debito a differenza delle sovvenzioni), che nel 2009 erano stati stabiliti a 100 miliardi di dollari l’anno (ma questa cifra non è ancora rispettata).
Il compromesso raggiunto a Glasgow presenta una serie di promesse, ma non è legalmente vincolante, perché non è un Trattato internazionale. Non sono previste sanzioni per chi non lo rispetta. D’altronde, le economie in via di sviluppo rifiutano il cosiddetto ‘approccio unico’. Dal loro punto di vista non si possono chiedere i medesimi sforzi, quindi mettere sullo stesso piano, i paesi ricchi (quelli che hanno fino ad ora ‘ammazzato’ il Pianeta) e tutti gli altri Stati.
Alcuni risultati in ordine sparso sono comunque stati raggiunti: dalla dichiarazione congiunta Usa-Cina sull’importanza dell’obiettivo di 1,5 gradi ai 100 paesi che si sono impegnati a mettere fine alla deforestazione per il 2030, dalle nazioni (anche in questo caso 100) che affermano di voler tagliare il metano del 30% ai 40 Stati che promettono lo stop al carbone (ma non ci sono né Usa, né Cina), dall’impegno di alcuni di non finanziare investimenti nei combustibili fossili all’estero all’alleanza Boga (Beyond oil and gas) che fa balenare l’uscita dai carburanti fossili. Con una chicca finale: 450 istituzioni finanziarie, che gestiscono centinaia di miliardi di capitale, hanno promesso di investire in energie pulite. Un annuncio che, per alcuni osservatori, ha il sapore amaro del greenwashing.