Un operatore che rinuncia a gestire un’attività infrastrutturale con una marginalità superiore al 40 per cento per sviluppare un business più volatile che oggi rende la metà, con il grosso dei ricavi concentrati su un mercato domestico che negli ultimi anni si è prosciugato più di ogni altro in Europa. Un operatore che, peraltro, non paga dividendi da anni.
È la sintesi dell’involuzione di Telecom che recentemente ha ceduto per 22 miliardi al fondo americano Kkr il suo principale gioiello, la rete, dopo la sciagurata privatizzazione della Telecom nel 1998 che dette luogo, poi, al più grande scandalo dell’Italia unitaria con 14 mila miliardi di plusvalenza in soli 30 mesi per chi aveva comprato la Seat pagine gialle.
D’altronde Telecom Italia, gravata da un debito che è ormai arrivato a sfiorare i 33 miliardi, non poteva permettersi di tenere in casa la gallina dalle uova d’oro con il rischio di farla morire di fame. La cessione della rete quantomeno consente al gruppo di superare l’incubo del debito.
Un affare più che buono lo ha fatto Kkr, che nel 2030, stando alle proiezioni del piano, avrà da rivendere un’infrastruttura ammodernata che, anche senza considerare l’eventuale unificazione con Open Fiber, tornerà a essere estremamente redditizia.