Poche imprese riescono a produrre buona parte dei profitti globali. Ma la notizia è un’altra. Primo, gli shock idiosincratici non si annullano a vicenda (shock positivi in alcune aziende non compensano quelli negativi in altre). Secondo, le fluttuazioni aggregate (Pil, investimenti, esportazioni, disoccupazione) in Europa hanno sostanziali origini microeconomiche. Ciò significa che le grandi imprese possono generare con i loro shock sensibili variazioni negli indicatori macroeconomici.
Il campione utilizzato comprende 14 milioni di aziende e otto paesi dell'area euro (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Portogallo e Spagna) dal 2000 al 2013. L’analisi svela che i ricavi delle 100 maggiori imprese corrispondono, in media, al 29 per cento del Pil nazionale. II Belgio vanta la percentuale più rilevante di Pil nel periodo considerato (40 per cento), Germania e Finlandia il 37, mentre il Portogallo ha la quota più bassa (17).
L’evidenza empirica mette in luce un altro punto nodale: gli shock idiosincratici originati dalle grandi imprese spiegano oltre il 40 per cento della variazione della crescita del Pil reale. Ovvero 11 punti in più rispetto alla quota effettiva di Pil generato (29 per cento). Questo risultato indica che le grandi imprese possono condizionare le fluttuazioni aggregate ben oltre le loro capacità aziendali. Ad essere coinvolto è, infatti, anche l’indotto, cioè i fornitori, costituiti perlopiù da piccole e medie imprese.
Appare, dunque, piuttosto chiara la necessità di dare più considerazione alle politiche settoriali per integrare quelle tradizionali sul lato della domanda. Ciò rappresenta una sfida per i policy-makers, soprattutto quando il divario delle performance tra grandi aziende e PMI tende ad allargarsi, rendendo gli shock economici interni più asincroni e l'economia più difficile da guidare.