
Da misura d’emergenza per superare l’epidemia a modello duraturo. Lo smart working può sopravvivere nell’Italia della fase tre, quella che chiuderà, si spera a breve, i conti con il coronavirus? Finora molti erano i dubbiosi, che vedevano un pronto ritorno all’organizzazione del lavoro tradizionale. Ora aumentano coloro che ritengono il lavoro a distanza come una scelta vincente, anche sul medio termine. Come Domenico De Masi, professore emerito di sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma.
“In Italia ci sono 23 milioni e 200 mila occupati. Di questi, al primo gennaio 2020, coloro che tele-lavoravano, erano 570 mila. Di colpo, ai primi di marzo, dopo il primo decreto governativo, sono diventati 8 milioni”. De Masi presenta così, con la potenza di pochi numeri la sua convinzione ad Andrea Pancani, conduttore di Coffee Break. Un aumento mostruoso, di 14 volte, in pochi giorni.
Eppure il margine di ulteriore aumento per lo smart working è ancora enorme, quasi doppio rispetto al dato rilevato nella fase più acuta del lockdown. “Secondo i miei calcoli gli impieghi telelavorabili sono 14 milioni. Tutti i lavori intellettuali lo sono, quindi manager, dirigenti, funzionari, impiegati e tanti altri. Certo, non possono esserlo i chirurghi, le cassiere dei supermercati o i ristoratori” spiega il sociologo, che aggiunge un altro dato fondamentale: “Il 75% degli attuali 8 milioni di telelavoratori vuole il mantenimento di questa condizione”.
Ci sono tre vantaggi perché questa che è stata una rivoluzione prorompente ma necessitata da virus, diventi stabile e duratura. “I lavoratori hanno il beneficio di auto-organizzarsi. Di vivere di più in famiglia, con gli amici, nel proprio quartiere e di non stressarsi negli spostamenti verso il luogo di lavoro. Per le città l’enorme beneficio è l’attenuazione del traffico – con minore tempo per risolvere le proprie esigenze - e dell’inquinamento”.
Ma il vantaggio più sorprendente De Masi lo rileva per le aziende: “Per loro c’è un sensibile aumento della produttività. Tra il 15 e il 20%. Potremmo colmare lo strutturale gap con gli stati nord-europei”.
Presi per il PIL
Sul fatto che lo smart working possa aumentare la produttività in realtà non c’è al momento alcuna evidenza empirica.
Al contrario, sussistono rischi che la produttività nel medio-lungo periodo possa ridursi, anziché aumentare (come sostenuto da De Masi), minata dalla difficoltà di conciliare i tempi di lavoro con quelli privati e familiari. Inoltre, lavorando da casa, si riduce la cooperazione tra i lavoratori.
Appare invece più probabile che lo smart working possa generare una riduzione dei costi complessivi per le imprese oltre agli evidenti effetti sull’ambiente.