La domanda sorge spontanea: come è possibile che le università italiane tanto indietro nei rankings formano tanti scienziati che vengono assunti nelle migliori università americane? Caterina La Porta e Stefano Zapperi in un articolo pubblicato su Nature e ripreso da Soars provano a dare una risposta.
“Abbiamo scoperto che quasi 3.000 docenti assunti negli Stati Uniti nell’arco di tempo considerato hanno conseguito il dottorato in Italia – spiegano La Porta e Zapperi -. Questo numero è sorprendente, soprattutto se confrontato con i 7.384 ricercatori tenure-track (percorso che porta all’assunzione come professore associato, ndr) assunti in Italia nello stesso periodo. I posti di ricercatore tenure-track sono stati istituiti nel 2010, ma sono entrati effettivamente in vigore solo nel 2013. Dopo la loro introduzione, il numero di nuove posizioni per i ricercatori è cresciuto e ora si aggira intorno alle 1.000 unità l’anno. Si tratta di un numero esiguo se confrontato con i circa 10.000 dottori di ricerca che si laureano ogni anno, considerando anche l’arretrato dovuto dal blocco delle assunzioni. Questo spiega perché molti dottori di ricerca italiani cercano opportunità all’estero”.
Non finisce qui la storia. I due ricercatori hanno scoperto che “il 35% dei docenti formati nelle università italiane è stato assunto da dipartimenti statunitensi appartenenti al primo 25% in termini di prestigio”. Inoltre, le università statunitensi considerate di pari livello a quelle italiane evidenziano percentuali ben più basse.
Gli autori non vogliono sostenere che non ci sia nulla da migliorare nel sistema accademico italiano, le cui carenze sono invece note, a cominciare dalla modesta spesa pubblica in R&S e dalla scarsa capacità di attrarre talenti dai paesi esteri. Tuttavia – evidenziano La Porta e Zapperi – “l’Italia non sembra in grado di capitalizzare il grande potenziale costituito dalle persone che forma. I dati dicono però che la qualità della formazione e della ricerca in molte materie, soprattutto quelle STEM, rimane alta. Dovremmo continuare a puntare sul mantenimento della qualità, e magari imparare un’abilità in cui le istituzioni accademiche statunitensi eccellono: l’autopromozione”.