L’adozione della settimana corta a parità di salario ha riscontrato risultati molto positivi in Islanda. Verrebbe però subito da pensare che le dimensioni contano: quel che è possibile in un’economia piccola e aperta potrebbe non essere esportabile in una grande.
E qui veniamo al punto: mentre l’adozione della settimana corta presenta indubbi vantaggi per le imprese (più produttività, minori costi complessivi, maggiore felicità dei propri lavoratori nel breve-medio periodo), può dirsi lo stesso per i lavoratori?
In altri termini, il problema principale è aumentare i salari soprattutto delle fasce meno abbienti oppure avere più tempo disponibile?
I due aspetti non sono necessariamente in contraddizione, ma siamo sicuri che l’adozione della settimana corta non avrebbe anche l’effetto perverso di congelare i salari per 5-10-15 anni con esiti particolarmente negativi soprattutto nei paesi con una dinamica salariale modesta come l’Italia, dove il nodo principale è ottenere uno stipendio decente e adeguato al costo della vita, fatto non scontato in un’economia (l’unica dell’Ue) dove i salari anziché aumentare sono diminuiti negli ultimi 30 anni?
In altri termini, non si rischia che la settimana corta nasconda uno scambio non dichiarato tra più tempo libero, ottenuto principalmente aumentando l’intensità con cui si lavora, e meno salario nel medio-lungo periodo, dietro la falsa scusa che riducendo l’orario a parità di salario è come se si aumentassero le retribuzioni?
In tale scenario, le imprese potrebbero prendere due piccioni con una fava, mentre qualcun altro rischierebbe di restare con il cerino in mano. Nei paesi dove i salari sono ancora troppo bassi, prima di ridurre l’orario, sarebbe forse utile prima invertire la dinamica retributiva.