Il paese sta crescendo ad un ritmo sostenuto. E non da ieri. L'Ungheria ha attratto capitali stranieri nel settore manifatturiero dalla caduta del comunismo nel 1989, e ancor di più, da quando è entrata nell'Ue nel 2004.
La disoccupazione è scesa al 3,8%, che si traduce in termini assoluti in sole 279 mila persone alla ricerca di un lavoro. L’altra faccia della medaglia è la carenza di manodopera, che ha cominciato a costituire un problema già dal 2013. E ora la situazione si è fatta più critica.
Eppure, per raggiungere la piena occupazione il primo ministro, Viktor Orbán, bersagliato dalle critiche per il suo autoritarismo e il dichiarato impegno anti-immigrati, si è dovuto spendere e condurre un'intensa politica industriale dal suo insediamento nel 2010.
Questi risultati sono, tuttavia, viziati dalla consistente fuga all’estero di 350 mila magiari - circa il 10% della forza lavoro ungherese - che sono andati alla ricerca di retribuzioni migliori. Un operaio guadagna ancora oggi intorno ai 500 euro, nonostante il governo abbia ripetutamente aumentato il salario minimo negli ultimi tre anni - dell'8% soltanto nel 2018 - e le retribuzioni medie siano in crescita dal 2015.
Il punto è che l'Ungheria non ha un piano B. E, peraltro, non è stata finora in grado di attingere manodopera flessibile a basso costo dai paesi vicini come, ad esempio, la Polonia ha fatto con gli ucraini. A dire il vero in molti sono arrivati da Romania, Serbia e Ucraina, ma con l’obiettivo di prendere il passaporto ungherese per potersi poi spostare più facilmente negli altri paesi Ue. E non è certo ipotizzabile aprire le frontiere visto che, dalla crisi dei rifugiati del 2015, il governo ha fatto del rifiuto dell’immigrazione la pietra miliare del proprio programma politico. Ma quanto sarebbero utili ora.