Le due guerre contro Saddam, lo scontro con l’Iran, il legame con l’Arabia Saudita, il primo produttore mondiale di petrolio. Gli Usa hanno per lungo tempo cercato di controllare il Medio Oriente. E ancora oggi la Casa Bianca tiene una flotta a pattugliare il Golfo Persico, dove passa quasi un quinto del petrolio mondiale.
Per cui è sembrata apparentemente incomprensibile la scelta di Trump di abbandonare i curdi al loro destino e stringere la morsa sull’intero Medio Oriente.
Nel frattempo è tuttavia intervenuto un altro fatto nuovo: gli Usa non sono più importatori di petrolio. Appena dieci anni fa, la prima economia al mondo comprava all’estero 12 milioni di barili al giorno (più di un sesto della produzione mondiale). Ma da ottobre 2019 ha invertito il trend e ora gli Stati Uniti sono un paese esportatore.
E può guardare al Medio Oriente con meno interesse. Se lo stretto di Hormuz chiude l’accesso, Europa e Cina si fermano. Gli Usa no.
Come è stato possibile? La rivoluzione prende il nome di shale, il petrolio pompato dalle rocce di argilla che nel giro di pochi anni ha sconvolto il mondo del petrolio (abbassando i prezzi) e messo in difficoltà persino i sauditi.
Ma c’è un problema. Il costo di produzione dello shale è alto e fino ad ora gli azionisti delle corporations non hanno guadagnato quanto stimato inizialmente. Investimenti elevati e prezzi stracciati hanno creato un mix che potrebbe diventare letale per il settore.
Ecco perché l’autosufficienza statunitense potrebbe rivelarsi effimera.