È stata sufficiente un’ora di riunione per prendere una decisione che condiziona la ripresa dell’economia globale. In poco meno di sessanta minuti, l’Opec+ (il cartello dei produttori di petrolio allargato alla Russia) ha deciso di non modificare il suo piano di graduale aumento della produzione di greggio. L’Organizzazione conferma così l’accordo sottoscritto a luglio che prevede incrementi di appena 400 mila barili al mese fino al settembre del 2022, quando si dovrebbe tornare a livelli precedenti all’emergenza pandemia.
Inutili gli appelli dei governi, a cominciare da quello statunitense, che temono per la crescita dell’inflazione spinta dai rincari delle materie prime. In gioco non c’è soltanto l’economia mondiale, ma anche il cambiamento climatico. E qui la responsabilità di che rema contro è ancora più evidente.
Sebbene la gravità della crisi ambientale sia, ormai inevitabilmente, chiara a tutti, nel 2020 le 25 più grandi aziende statunitensi del gas e del petrolio hanno pubblicato su Facebook una serie di annunci, visti da 431 milioni di persone, per minimizzare l’emergenza climatica fornendo informazioni incomplete o scientificamente scorrette con il fine di rallentare gli interventi per contrastare il climate change e preservare il più a lungo possibile l’attuale modello economico e produttivo.
Eppure è ormai evidente come il modello ‘business of business is business’, efficacemente impersonificato dalla multinazionali delle energie fossili, non sia più compatibile (forse non lo è mai stato) con la vita sul Pianeta. Anche a causa dei sempre più frequenti disastri ambientali causati dal commercio di petrolio.