L'energia nucleare avrebbe dovuto rappresentare la soluzione perfetta per la sete di energia del Giappone, secondo le analisi di numerosi osservatori di qualche decennio fa. E nella sonnolenta città di Kashiwazaki, vicino a Fukushima, la soluzione doveva essere la centrale nucleare Kashiwazaki-Kariwa, gestita dalla compagnia Tepco, la società responsabile dell'incidente del 2011. Infatti, quando è in piena attività, l’impianto è il più grande al mondo ed è in grado di servire 16 milioni di famiglie. Tutti i suoi sette reattori, tuttavia, sono rimasti inattivi dall'incidente.
Così, tra le polemiche, nel 2017 l'autorità di regolamentazione nucleare del Giappone ha dato il via libera al lancio del lungo processo di riavvio di due reattori di Tepco (entrambi dello stesso tipo di quelli di Fukushima), che si trovano a circa 250 km a est degli impianti di Fukushima, sulla costa del Mar del Giappone.
Per scacciare le paure di un secondo disastro, Tepco ha costruito un muro di 15 metri che, secondo la società, dovrebbe essere in grado di sopportare qualunque tsunami (immaginabile). Gli edifici che ospitano il reattore sono stati rinforzati e sono stati installati dei filtri che, secondo Tepco, dovrebbero rilasciare soltanto lo 0,01% di materia radioattiva nell'atmosfera in caso di fusione.
Agli occhi di Tepco, il riavvio è necessario ed è una situazione win-win. L’azienda ha bisogno di maggiori entrate per pagare la disattivazione dell'impianto di Fukushima. Il governo giapponese ha stimato il costo complessivo (compresi gli indennizzi alla popolazione) in 22 trilioni di yen (198 miliardi di dollari), ma il Centro per la ricerca economica giapponese ritiene che il conto finale debba essere moltiplicato per circa tre volte. Occorre, poi, considerare che la centrale impiega più di 6 mila lavoratori.