“La Federal reserve è impazzita”. Con queste cinque parole Donald Trump attacca la Banca centrale Usa, di cui ha nominato lui stesso il nuovo governatore, Jerome Powell. Sarebbe stato lui, con l’ultimo aumento dei tassi di interesse, ad aver causato il pesante crollo di Wall Street del 10 ottobre. Il presidente degli Stati Uniti si scatena in un attacco senza precedenti contro una delle istituzioni più rispettate. “La Fed è troppo severa”, dice Trump.
La Cina e i tassi spiegano la grande paura di Wall Street, caduta soprattutto per i titoli tecnologici ipervalutati: meno 831 punti il Dow Jones, meno 4% il Nasdaq. Sui rapporti Washington-Pechino, così come sul costo del denaro, si sta chiudendo un’epoca. Gli investitori sanno che se ne apre una molto più complessa. L’adattamento rischia di essere traumatico e la transizione può includere nuovi shock globali.
Intanto la guerra commerciale comincia a mordere sull’economia cinese. L’Fmi vede un rallentamento della crescita in entrambe le economie, l’americana e la cinese. Nel caso di Pechino si aggiunge la mina vagante del debito pubblico pari al 300% del Pil.
All’incertezza del quadro appena delineato si aggiunga la fine della politica monetaria accomodante, come lo stesso Powell aveva annunciato a settembre. L’era del denaro facile è giunta al capolinea. Con una terapia d’urto, la Federal reserve favorì l’uscita dalla crisi del 2008 inondando il pianeta di dollari a buon mercato e credito a tassi ridotti.
Ma da tempo è cominciata l’inversione di tendenza. I tassi salgono, mentre la marea di dollari si prosciuga. Come ampiamente preannunciato, lo scenario non è "impazzito", è semplicemente cambiato.