L’analisi di Francesco Lenzi sul ruolo giocato dalla Fed in questa fase pubblicata su lavoce.info.
Con un mercato del lavoro statunitense che non cresce al ritmo ipotizzato a inizio anno e previsioni di inflazione a lungo termine ancorate al target, ventilare prematuramente aumenti dei tassi potrebbe solo rafforzare lo scetticismo che il mercato nutre sulla capacità della Federal reserve, la Banca centrale Usa, di perseguire in modo coerente il nuovo obiettivo di media di inflazione. Si è però cominciato a discutere negli Stati Uniti, per la prima volta, di come avviare la riduzione (tapering) della dimensione del Quantitative easing e nella riunione di settembre della Fed verranno date indicazioni più precise su come saranno scalati gli acquisti.
La decisione, che rappresenterà l’inizio di un percorso di normalizzazione della politica monetaria degli Usa, è però anche il prendere atto di quello che avviene sul mercato monetario del dollaro, in cui la liquidità è ormai troppa. Tutto è iniziato alla fine di marzo con la revoca dell’esclusione dei depositi presso la Banca centrale nel coefficiente Slr (Supplementary Leverage Ratio). Per evitare di dover accumulare più capitale, le principali banche americane scoraggiano l’afflusso di nuovi depositanti. Negli ultimi tre mesi la loro liquidità, espressa dai depositi presso la Fed, è rimasta pressoché costante, contro i circa 1.200 miliardi di liquidità immessa dagli organi federali (900 spesi dal governo e 300 di Quantitative easing). Il fiume di liquidità, non potendo sparire, ha preso così altre strade, riversandosi sul mercato monetario e schiacciando tutti i tassi a breve termine, compresi quelli dei T-bills, a un livello vicino allo zero.
La Fed si è sempre dichiarata contraria ai tassi d’interesse negativi, perché ritiene che non permettano un corretto funzionamento del mercato monetario. Così, con i tassi a breve termine in caduta libera, pericolosamente vicini a diventare negativi, ha potenziato le operazioni di pronti contro termine, dette di Reverse Repo, con le quali vende a termine sul mercato titoli di stato e ritira liquidità. In pratica, mentre da un lato la Fed immette liquidità (o acquista titoli) con il Quantitative easing, dall’altro lato la ritira (o rivende titoli) con le operazioni di Reverse Repo, per fare in modo che i tassi non diventino negativi. L’effetto complessivo è una riduzione dei titoli che ha in bilancio.
Il processo di normalizzazione quantitativa è dunque già nei fatti ed è la conseguenza di una situazione inversa rispetto a quella che rilevata nel settembre del 2019. Allora, in una situazione di scarsità di liquidità, la Fed fu costretta a interrompere in anticipo la riduzione quantitativa in corso e fornire nuova liquidità attraverso le operazioni di Repo, per poi lanciare un Qe mascherato che prese il nome di Reserve Management Purchase. Se non lo avesse fatto, avrebbe perso il controllo al rialzo dei tassi monetari.
Oggi invece deve intervenire per assorbire liquidità per non perdere il controllo del limite inferiore. Come se esistesse un trio inconciliabile, fatto di tassi d’interesse a breve termine, dimensione della liquidità e regolamentazione del bilancio degli intermediari, nel quale la Banca centrale possa controllarne solo due. La presa d’atto dell’esistenza del trio inconciliabile potrebbe indurre una futura decisione di rendere permanenti le facility di Repo e Reverse Repo. Una scelta che potrebbe rendersi inevitabile per mantenere il controllo di un ampio spettro di tassi a breve termine e allo stesso tempo continuare a regolamentare le esposizioni delle banche commerciali.