In occasione della sua prima uscita ufficiale come governatore della Federal reserve, Jerome Powell, aveva parlato al Congresso di un'economia Usa in robusta ripresa. Inoltre, da febbraio il rendimento dei titoli federali a medio-lungo termine (che rispecchia le aspettative sulla futura politica monetaria) non è salito. Anzi, all’indomani della decisione di alzare i tassi ufficiali di 25 punti base, i rendimenti sul mercato finanziario (oltre l’anno) sono diminuiti a dimostrazione che i mercati non sembrano preoccupati.
Eppure qualche motivo per esserlo ci sarebbe. Tra questi il progressivo rallentamento della crescita, che la Fed colloca al 2,7% quest’anno, ma in diminuzione al 2,4 nel 2019 e al 2 nel 2020, allontanandosi perciò dall’obiettivo del 3% fissato dall’amministrazione Usa. C’è, poi, il tasso di inflazione che dovrebbe restare stabile attorno all’obiettivo del 2%.
La Fed aumenta i tassi, dunque, ma con cautela, mentre Powell richiama l’attenzione sul fatto che stime e previsioni sono incerte per definizione. A motivare il rialzo sembra esserci anche un bisogno di ritorno alla “normalità” dopo sette anni di tassi a zero. Ma dal quadro macroeconomico delineato dalla stessa Fed non traspare l’urgenza del ricorso alla politica monetaria per rallentare l’economia.
Le vere cause dell’incertezza che agita le banche centrali non sono le valute, i tassi di interesse o il livello dei prezzi. Bensì la politica. Sono loro, i governi, la grande incognita: negli Stati Uniti per la contraddizione tra annunci roboanti e realtà, mentre in Europa per l’incapacità di comprendere che la moneta unica ha bisogno di più politica.