La reazione di Israele contro Hamas, e i civili della striscia di Gaza, solleva dubbi e incertezze. Da tutti, o quasi, i punti di vista: da quello certamente dei palestinesi, ma anche tra i familiari degli ostaggi e tra chi entro i confini di Israele si oppone all’azione politica del governo guidato da Benjamin Netanyahu. Uscendo poi dai confini domestici, sempre meno Paesi sembrano disponibili a sostenere l’indefinito programma militare israeliano.
Gli inauditi bombardamenti e la distruzione della Striscia (che hanno causato, in una orripilante contabilità di guerra, circa 7mila vittime a fronte dei 1400 israeliani trucidati da Hamas) non trovano molti seguaci, anche perché Israele può forse annientare Hamas ma, così facendo, sta gettando il seme per tanti altri probabili Hamas: è ciò che spesso accade quando un popolo è rimasto senza speranza, che peraltro sarebbe salvifica anche per la sicurezza di Israele. Quando non c’è una speranza, la ragione tende a lasciarci. È quello che ci dice la storia.
Ecco la storia: quella di Israele è, d’altronde, stata spesso una storia di conflitti. Un elenco parziale include la guerra arabo-israeliana del 1948 che seguì la nascita di Israele; il tentativo israelo-britannico-francese nel 1956 di impadronirsi del Canale di Suez e rovesciare il leader nazionalista arabo dell'Egitto; la Guerra dei Sei Giorni del 1967; la guerra dello Yom Kippur del 1973; e l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Ci sono anche le due intifade palestinesi e numerosi conflitti minori.
Prima o poi, la magia politica distruttiva del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, che lo ha mantenuto al potere per 15 anni, era probabilmente destinata a inaugurare una grave tragedia. Circa un anno fa ha formato il governo più radicale e incompetente della storia di Israele. Non preoccupatevi, aveva assicurato ai suoi critici, ho “due mani salde sul volante”. Sì, facile a dirsi quando (secondo alcuni) lo sterzo è bloccato.
Allo stesso tempo, Netanyahu ha sempre escluso qualsiasi processo politico in Palestina affermando coraggiosamente, nelle linee guida vincolanti del suo governo, che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra di Israele”, rendendo (secondo alcuni osservatori tra cui Shlomo Ben-Ami) inevitabile un nuovo spargimento di sangue.
È vero che in Palestina scorreva sangue anche quando erano al potere sostenitori della pace come Yitzhak Rabin e Ehud Barak. Ma Netanyahu ha incautamente invitato alla violenza pagando qualsiasi prezzo ai suoi partner di coalizione per il loro sostegno. Ha lasciato che si impadronissero delle terre palestinesi, espandessero gli insediamenti illegali, disprezzassero la sensibilità musulmana riguardo alle sacre moschee sul Monte del Tempio.
Nel frattempo, ha anche messo da parte la leadership palestinese più moderata di Mahmoud Abbas in Cisgiordania, rafforzando di fatto il radicale Hamas a Gaza. Il resto è la cronaca di questi giorni. E resta aperto un dubbio: ma tutto ciò spiega davvero il fallimento di Israele nell’impedire ad Hamas di attaccare così i profondità il Paese?