Automazione, le persone danno forma al futuro. Non la tecnologia

Robot, digitalizzazione, automazione: maledizione o benedizione? Trent'anni fa, l'esperto di leadership Warren Bennis immaginò che la fabbrica del futuro avrà solo due impiegati: un uomo e un cane. L'uomo sarà lì per dare da mangiare al cane. Il cane sarà lì per impedire all'uomo di toccare l'attrezzatura. Sono numerosi gli studi sugli effetti occupazionali dell’automazione. La maggior parte conferma la correlazione positiva tra innovazione e perdita di posti, ma indicano percentuali molto differenti su quanto lavoro verrà bruciato.

Automazione, le persone danno forma al futuro

Un valore che sembra realistico è il 10%. Ma anche se nessuno è in grado di prevedere esattamente dimensioni e tempi, l’automazione sta già cambiando la natura del lavoro. Elimina alcune mansioni, rende alcuni lavoratori più produttivi e altri obsoleti. E il peso dell’aggiustamento ricadrà soprattutto sui lavoratori poco qualificati, perché le loro mansioni sono spesso automatizzabili e avranno maggiore difficoltà ad acquisire nuove competenze.

Ecco perché la disoccupazione sarà un problema ancora più serio in futuro (a causa della mancanza di lavoro ma anche) perché le competenze necessarie per le nuove occupazioni evolveranno rapidamente e il sistema educativo rischia di non tenere il passo. Al contempo, appare difficile l’idea di rinunciare all’innovazione, che porterà anche benefici alla società. Le economie che invece resteranno indietro nello sviluppo delle industrie del futuro – robotica, genetica, big data, cibersicurezza – saranno destinate al declino. Non resta pertanto che investire in istruzione. E qui vale un principio che sarebbe buono per la pubblica amministrazione in generale: alzare i salari e far salire l’asticella nella selezione della propria forza lavoro. Occorrerebbe, poi, chiedere alle imprese quale siano le competenze richieste, così da poter creare le condizioni che domanda e offerta si incontrino. Ma se si vuole ottenere questo risultato tra dieci anni occorre agire adesso.

E, comunque, tutto ciò probabilmente non basterà. Non tanto per la distruttiva innovazione quanto per una serie di altre variabili in gioco. È su questo gap che cresce il movimento globale a sostegno di due misure di contrasto alla povertà tra loro differenti: il Reddito di cittadinanza (un’erogazione concessa senza condizionalità; non quello proposto dal M5s, che è invece un Reddito minimo di inserimento) e, appunto, il Reddito minimo di inserimento. Altre proposte convergono sull’imposta negativa: un Reddito minimo che non sia un sussidio permanente (per non comportare un disincentivo al lavoro), ma vari con il reddito. Tutte queste proposte hanno un comune denominatore: partono dal presupposto che la guerra tra automazione e occupazione vedrà la sconfitta, almeno parziale, del lavoro.

Se, al contrario, si prova a rimettere le persone al centro dell’economia e l’uso che fanno delle nuove tecnologie si potrebbe guardare a una produzione più sostenibile, socialmente responsabile ed efficiente. Secondo Paul Krugman, "la capacità di un paese di migliorare il proprio tenore di vita nel tempo dipende quasi interamente dalla capacità di aumentare la produzione per lavoratore". Una maggiore produttività libera risorse umane per svolgere compiti in cui gli esseri umani sono superiori alle macchine. Ma uno dei problemi per l’Italia è proprio questo: una produttività strutturalmente bassa da lungo tempo.

Per chi ha invece un’alta produttività le persone, non la tecnologia, potranno scegliere quale forma dare all’economia dei prossimi anni, sapendo che dipenderà dal modo in cui saranno utilizzate le nuove tecnologie. Il che ci riporta all'apprendimento umano, quindi all’istruzione, che resta un fattore più importante dell'apprendimento automatico. Anche in futuro.

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