Dati quotidiani o settimanali? La domanda è capziosa e offensiva verso la cittadinanza

La questione sollevata in questi giorni in Italia è malposta e rivela che per le istituzioni spesso i cittadini sono soltanto dei bambini ai quali si preferisce nascondere il problema piuttosto che approfondirlo. I dati affidabili e riscontrabili non sono mai un ostacolo, anzi una ricchezza. Il punto è, semmai, come comunicarli.

Dati quotidiani o settimanali? La domanda è capziosa

La quotidiana conta di contagiati, ospedalizzati e vittime del Covid ormai non piace a tutti e si è scatenato un dibattito tra esperti e politici. Per il virologo Matteo Bassetti il report serale “non dice nulla e non serve a nulla se non mettere l’ansia alle persone, siamo rimasti gli unici a farlo. Che senso ha dire che abbiamo 250 mila persone che hanno tampone positivo? Bisogna specificare se sono sintomatici, asintomatici, sono ricoverati, stanno a casa. Sono numeri che ci fanno fare brutta figura col resto del mondo, perché sembra che vada tutto male e invece non è così, nella realtà altri Paesi che hanno molti più contagi di noi cercano di gestirli in maniera diversa. Se continuiamo così finiremo con l’andare in lockdown di tipo psicologico e sociale.”

Raccoglie l’appello il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, che fa sapere di aver proposto “una riflessione” in merito al ministro Roberto Speranza: “Il numero dei contagi di per sé non dice nulla, è necessario soffermarsi essenzialmente sui dati delle ospedalizzazioni e occupazione delle terapie intensive”. Anche secondo l’infettivologo e membro del Cts Donato Greco “sarebbe un'ottima idea far diventare settimanale il bollettino dei contagi, mi sembrerebbe naturale farlo.”

Differente la posizione dell’altro sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri: “Nell'immediato e in attesa di evidenze conclusive sull’argomento, ritengo comunque utile una comunicazione puntuale e trasparente di tutti i dati disponibili, accompagnata da un’adeguata interpretazione che aiuti i cittadini ad orientarsi meglio in questa nuova fase della pandemia”. Sulla stessa linea, tra gli altri, si posiziona il virologo Fabrizio Pregliasco: “Comunicare giornalmente il dato relativo ai contagi rappresenta una posizione di trasparenza e la raccolta del dato in se è fondamentale per la ricerca e la sanità pubblica. Siamo ancora in una fase di transizione, e non fornire oggi tale dato potrebbe facilitare un ‘liberi tutti’ a cui non siamo ancora pronti”. Ancora più esplicito è il virologo altoatesino Bernd Gaensbacher che all’Ansa dice: “I dati Covid vanno pubblicati tutti i giorni, altrimenti agiamo a favore del virus. Se improvvisamente tacciamo i numeri, i cittadini abbasseranno la guardia e il virus potrà diffondersi. Se invece continuiamo a documentare come la curva sta salendo in modo esponenziale, gli italiani saranno più prudenti.”

Ma, al di là delle posizioni più o meno divergenti, entriamo maggiormente nel merito. “In Italia durante l’emergenza Covid i dati sono stati gestiti dalla Protezione Civile che ha emanato una ordinanza per stabilire il flusso informativo, creato ex novo perché quelli usuali non erano in grado di affrontare l’emergenza – rileva il fisico Francesco Sylos Labini in un articolo pubblicato su Roars -. In particolare, la sorveglianza epidemiologica è stata affidata all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che ha predisposto una piattaforma in cui le Regioni hanno riversato le informazioni sanitarie che dunque hanno viaggiato in un’unica direzione, dalla periferia al centro, mentre non è stato previsto l’utilizzo aperto e trasparente dei dati da parte della comunità scientifica. L’analisi indipendente presuppone infatti la riproducibilità dei risultati, pilastro fondamentale del funzionamento della ricerca. Dunque, non c’è stata la possibilità di consentire e coordinare l’accesso ai dati. Le conoscenze sono state dunque proprietà di una singola autorità e questo ha generato una sfiducia nell’opinione pubblica relegando in un ruolo marginale la comunità scientifica.”

Non tutti in Europa hanno, tuttavia, seguito lo stesso metodo. “In Francia, pur avendo le stesse norme sulla privacy, che sono emanate a livello europeo, le cose sono andate in maniera diversa – osserva Labini riferendosi a un intervento di Vittoria Colizza -. L’Agenzia di Salute Pubblica francese rende disponibili in forma aperta ed online i dati sanitari sulla pandemia utilizzando una piattaforma già esistente dal 2018 e dunque non improvvisando ex novo la raccolta dati. Inoltre, i 145 indicatori relativi al Covid sono disaggregati per classi di età, per zona geografica, ecc. Se il dato italiano è stato fornito a livello delle 21 regioni, nella sola Francia continentale la definizione spaziale è molto fine: 50.100 frazioni di comuni. Nel momento in cui si aumenta la definizione spaziale, per ragioni legislative legate alla privacy, è necessario aggregare in maniera mirata su altri elementi come l’incidenza o le classi di età, cosa che si può fare senza inficiare la qualità dell’informazione. La definizione spaziale è un dato chiave per mettere in relazione il tasso di incidenza in un certo territorio con le sue caratteristiche socioeconomiche, geografiche, ecc. e dunque per mettere a punto delle misure d’intervento focalizzate.”

“La differenza nella condivisione dei dati tra Italia e Francia non è dunque dovuta alle norme sulle privacy, che rispettano la stessa direttiva europea, quanto invece alle diverse politiche scelte dalle due agenzie che si occupano della loro diffusione – aggiunge Labini -. Essendo la cornice normativa europea la stessa, come ha spiegato Guido Scorza rappresentante del Collegio del garante per la privacy, quello che è stato fatto in Francia può essere fatto in Italia”. Secondo Scorza, quando i dati non circolano è perché questi sono fonte di potere per chi li detiene. Il dovere alla protezione dei dati è infatti spesso l’alibi per non cedere i dati a terzi da parte di chi li ha raccolti, anche se per motivi istituzionali e in quanto ente pubblico di ricerca.

“Per questo motivo la distopica realtà immaginata da Monti (secondo il quale è necessario trovare delle modalità meno democratiche nella “somministrazione” dell’informazione: questo poiché in una situazione “di guerra” si devono accettare delle “limitazioni alle libertà” adottando anche una politica della comunicazione opportuna) alla fin fine è molto più vicina alla realtà di questi anni nel nostro paese di quanto possa sembrare a prima vista – conclude il fisico - e tale lo rimarrà finché non ci sarà uno sforzo politico e deontologico per emanare un regolamento appropriato per disciplinare la diffusione dei dati in questo ambito, come in altri, per le agenzie finanziate con soldi pubblici.”

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