Il ritardo tecnologico dell’Europa rispetto, ad esempio, a Stati Uniti e Cina affonda le radici nel passato. Uno dei punti evidenziati da Mario Draghi nei giorni scorsi nel suo rapporto sulla competitività riguarda proprio il tema dell’innovazione: “Sulle 50 più importanti società tecnologiche mondiali, solo 4 sono europee”, ha detto l’ex premier.
Osservando i dati (fonte: My Data Jungle) inerenti l’attività di ricerca e sviluppo (sia pubblica che privata) in un gruppo di economie selezionate, emerge un quadro chiaro: Italia, Polonia e Spagna investono neanche l’1,5% in R&S in termini di Pil, segnalando un grave ritardo, mentre fanno meglio Francia (2,2%) e Cina (2,4%).
Sopra al 3% troviamo Stati Uniti (saldamente in testa con il 3,5%), Giappone e, in modo relativamente sorprendente, la Germania con il 3,1% (che in pratica spende più di Italia e Spagna messe insieme). Dunque, il problema per l’Europa dal punto di vista meramente quantitativo non sembra essere la Germania.
In realtà, questi dati celano un aspetto qualitativo di cui tenere conto: oltre alla quantità di soldi spesi in R&S, divengono determinanti gli ambiti degli investimenti. Ed è proprio qui che l’Europa sconta i suoi profondi ritardi in tema di innovazione. Ad esempio, la prima economia europea ha prevalentemente investito nel settore manifatturiero, segnatamente il settore automotive, che ora soffre sotto la pressione cinese. Il risultato è che nel Vecchio continente non c’è ad oggi nessun gigante digitale.