La Cina è una grande potenza anche dal punto di vista dell’innovazione. Se si considera il numero di ricercatori, per ogni milione di cinesi, nel Paese ce ne sono 1.307, secondo l’Unesco (dato del 2018). Un numero significativo ma decisamente inferiore, ad esempio, a quello di Stati Uniti (4.412), Germania (5.512), e Giappone (5.531).
Dato il miliardo e quattrocento milioni di cinesi, tuttavia, la massa di ricercatori in Cina è enorme. Anche la spesa in ricerca e sviluppo di Pechino è su livelli ragguardevoli: il 2,1 per cento del Pil a fronte del 2,8 statunitense.
E il risultato è sotto gli occhi di tutti: il numero di brevetti registrati è stato pari ad esempio nel 2020 a 1 milione e 340 mila contro i 269.586 degli Usa, secondo la World Intellectual Property Organization (Wipo).
Se dal punto di vista quantitativo Pechino sembra avviata verso un successo garantito, cosa suggerisce l’analisi qualitativa? Secondo alcuni, la maggior parte dei brevetti cinesi non è motivata e sostenuta da innovazioni ma dalla necessità di ottenere finanziamenti dal governo, promozioni e per migliorare la reputazione di singoli o di istituti.
Non è probabilmente un caso che solo il 6,3 per cento dei brevetti cinesi sia depositato all’estero, quota che invece è del 45,3 per gli Stati Uniti e del 58,8 per la Germania.
Wipo fa ricorso a un ‘grant ratio’ per certificare la qualità dei brevetti presentati: nel 2019, per quelli cinesi era al 30 per cento contro il 59,4 degli americani, il 59 dei tedeschi, il 52 dei canadesi, il 57 dei sudcoreani, e il 52 dei britannici.
Pechino sembra, insomma, puntare più alla quantità che alla qualità. Infatti, i brevetti originati in università diventano utili all’industria cinese per il 3,7 per cento contro il 45,2 di quelli sviluppati nelle imprese.