Per l’Occidente, lo spettro incombente di un acceso conflitto con i regimi autoritari, dalla Russia alla Cina, ha evidenziato ancora una volta l’importanza dell’America Latina come partner geopolitico ed economico. Sebbene la regione sia stata a lungo afflitta da corruzione, disuguaglianza e crisi di fiducia, negli ultimi anni aveva compiuto alcuni passi avanti, come la riduzione della povertà. La pandemia ha poi bruscamente interrotto questo processo, inaugurando un periodo di malessere economico e instabilità politica.
Cinque dei sei paesi sudamericani più popolosi sono ora guidati da governi di sinistra, sebbene siano profondamente lontani dal modello cubano o quello venezuelano. Il leader del Perù, Pedro Castillo, è un marxista autodichiarato. In Cile, un tempo baluardo delle politiche di libero mercato nella regione, è al comando l’attivista di sinistra Gabriel Boric. La Colombia ha recentemente eletto presidente l’ex guerrigliero Gustavo Petro. E il Brasile, il paese più popoloso della regione e quello con l’economia più grande, si unirà al gruppo alle prossime elezioni presidenziali in ottobre, quando Lula probabilmente supererà Bolsonaro.
Nel frattempo, le prove del declino dell’influenza occidentale in America Latina continuano a susseguirsi: all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso febbraio, ben cinque paesi hanno rifiutato di condannare l'invasione russa dell'Ucraina (Bolivia, Cuba, El Salvador e Nicaragua si sono astenuti e il Venezuela si è rifiutato di partecipare alla votazione). E molti governi latinoamericani si sono rifiutati di unirsi all’Occidente nell’imporre sanzioni alla Russia.
Inoltre, diversi leader latinoamericani – tra cui il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador e il presidente boliviano Luis Arce – avevano minacciato di boicottare il Vertice delle Americhe poi svoltosi il mese scorso (pur senza risultati rilevanti) se le loro controparti cubane, venezuelane e nicaraguensi fossero state escluse.
Fatti ed episodi che riflettono i fallimenti occidentali. E sebbene Biden non abbia mantenuto l’ostilità verso l’America Latina del suo predecessore, Donald Trump, la sua amministrazione non ha fatto alcun passo concreto. Anche l’Europa non si è mossa. Da quando ha concordato “in linea di principio” un accordo di libero scambio con i paesi del Mercosur – intesa che attende ancora di essere ratificata – l’approccio dell’Ue nei confronti dell’America Latina è apparso poco brillante.
Nel frattempo, la Cina continua ad espandere la sua presenza in America Latina. Dal 2002 al 2021, il commercio totale della Cina con la regione è salito alle stelle: da 18 miliardi di dollari a circa 449 mld. A questo ritmo, supererà i 700 miliardi di dollari entro il 2035. Numeri significativi messi a segno anche grazie ad accordi bilaterali siglati con Cile, Costa Rica e Perù. Pechino ha, inoltre, coinvolto 21 paesi dell’America Latina nella sua Belt and Road Initiative.
La Cina ha ottenuto tutto ciò mettendo sul piatto i benefici derivanti dall’aumento del commercio e degli investimenti, senza porre (apparentemente) alcuna condizione. Come sostiene il Financial Times, gli Stati Uniti sembrano avere un approccio in ‘stile Vaticano’ nei confronti dell’America Latina, fatto di molte regole e condizioni stabilite in anticipo, mentre la Cina offre la facile accoglienza dei missionari mormoni. Ciò non significa che Pechino non ponga richieste, ma arrivano solo in un secondo momento, spesso sotto forma di clausole nascoste.
Il punto è che l’Occidente non può permettersi di perdere l’America Latina che, nonostante numerose difficoltà, resta un importante produttore di carburante e beni alimentari, utile dunque a colmare parzialmente le lacune nella catena di approvvigionamento. Ecco perché l’Occidente dovrebbe ricostruire la sua perduta credibilità nella regione, magari cominciando a cooperare su temi di reciproco interesse, come il cambiamento climatico, la salute pubblica e la migrazione. Ma la posta in gioco è alta anche dal punto di vista economico.