Se il Vietnam fa da controfigura alla Cina

Triangolazioni commerciali: occhio non vede, cuore non duole. Le misure protezionistiche verso la Cina producono una riconfigurazione degli scambi. Il rischio è che non si riduca la dipendenza dell’Occidente da Pechino, né si fermi il rapido avanzamento tecnologico dell’economia cinese.

Se il Vietnam fa da controfigura alla Cina

La Cina è un paese con una manifattura sempre più avanzata che produce beni ad alto contenuto tecnologico. Stati Uniti ed Europa tentano di arginare l’ascesa cinese attraverso politiche protezionistiche, specie nei comparti in cui la Cina potrebbe acquisire un primato tecnologico.

Cosa dicono i dati doganali sull’efficacia delle sanzioni? E se i flussi di beni avessero cambiato targa solo perché transitati da altri paesi o prodotti sempre da aziende cinesi e con tecnologie cinesi in impianti fuori dalla Cina? Perché, se così fosse, le sanzioni non limiterebbero né i flussi di beni made in China, né lo sviluppo di tecnologie sempre più d’avanguardia all’interno delle imprese cinesi.

Il Vietnam è forse il paese dell’area Asean più integrato con le filiere Usa e Ue. Si presenterebbe quindi come candidato naturale a sopperire, almeno in parte, l’eventuale calo degli scambi con la Cina.

Tuttavia, le merci tendono a viaggiare solo lungo una direzione. Il Vietnam importa per lo più dalla Cina, che pesa per il 35 per cento (dato 2022) sul totale degli acquisti dall’estero vietnamiti. Seguono altri paesi asiatici: Corea del Sud (18,6 per cento), Giappone (5,8 per cento), Thailandia (3,9 per cento).

Per trovare la posizione degli Stati Uniti, bisogna arrivare al quinto posto con una quota del 3,5 per cento. Gli Usa però svettano come primo mercato di destinazione delle esportazioni vietnamite, con una quota pari al 28,6 per cento. La Cina, seppure seconda anche come mercato di destinazione, occupa una quota di poco più della metà di quella statunitense (15,3 per cento).

Focalizzando l’attenzione sui beni in cui la Cina è il primo esportatore e gli Stati Uniti il primo importatore rispettivamente verso e dal Vietnam, emerge una tendenza: se aumenta il numero di sanzioni imposte dagli Usa sui prodotti cinesi, aumenta anche il flusso di prodotti che, transitando per il Vietnam, dalla Cina finiscono negli Stati Uniti. Tali prodotti sono anche quelli più colpiti dalle sanzioni.

Nel 2018 il numero di sanzioni è cresciuto notevolmente determinando un’impennata degli scambi nel 2019 attraverso il flusso “Cina-Vietnam-Stati Uniti”. Quindi, stando all’eccezionale aumento di misure restrittive imposte dagli Stati Uniti nel 2022, non è da escludere che nel 2023 si registrerà un ulteriore incremento del flusso di merci che transitano per il Vietnam.

Usare il Vietnam come hub di commercio e produzione per merci dirette verso l’Occidente è particolarmente agevole per la Cina. Oltre alla vicinanza geografica e l’appartenenza alla stessa area di scambi, Cina e Vietnam hanno un’organizzazione politica simile, con una forte pianificazione pubblica.

Il protezionismo, pur volendo proteggere le industrie nazionali, potrebbe rivelarsi inefficace e controproducente. Il commercio trova modi creativi per eludere le barriere commerciali, utilizzando paesi come il Vietnam come intermediari commerciali o come luoghi dove dislocare imprese controllate.

Le politiche protezioniste rischiano di trasformarsi in un onere aggiuntivo per i consumatori costretti a pagare di più i beni finali e le imprese a sostenere costi più elevati dei beni intermedi, dato che i costi lievitano per l’effetto delle barriere tariffarie, per i percorsi più lunghi delle rotte commerciali o delle filiere più complesse.

Tutto ciò conferma un elemento già noto: il protezionismo tende ad assumere un connotato più politico che economico-finanziario. Come, peraltro, l’Europa sta sperimentando sulla propria pelle dopo aver applicato numerose sanzioni alla Russia (dopo l’invasione dell’Ucraina), scommettendo sul crollo fatale dell’economia della Federazione: una scommessa ad oggi persa per l’occidente.

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