
Ikea, Pfizer, Sony, Adidas, Nike. Le multinazionali, non soltanto quelle statunitensi, sono le aziende più esposte alla guerra dei dazi mossa da Donald Trump contro il mondo. Sono loro infatti ad aver tratto il maggior beneficio dall’epoca della globalizzazione che ha consentito di trasferire la produzione per i mercati occidentali in Paesi a basso costo di manodopera come Vietnam, Cambogia e Malesia. E sono sempre loro che rischiano di subire il maggior danno se il conflitto commerciale fra gli Stati Uniti e gli altri Paesi renderà più difficile e costoso il movimento di merci e capitali.
Il paradosso è che le multinazionali Usa sono le più a rischio rispetto ai dazi di Trump (scesi per tutti al 10% per 90 giorni, tranne che per Pechino). In Cina, primo destinatario della raffica di dazi di Trump, fra le aziende più esposte figurano colossi a stelle e strisce come Apple, Walmart, Target, Dell, Hp che nel Paese asiatico producono per il mercato statunitense o si riforniscono di merci da esportare negli Usa. Lo stesso vale per il Vietnam, soggetto a un dazio del 46%, dove sono attive Nike e Dell; per la Malesia, colpita da una tariffa del 24%, dove operano produttori di chip come Intel, Broadcom, Texas Instruments; e per l’India, per cui la barriera è del 26%.
Nella cortina commerciale di Trump rischiano però di finire impigliati anche molti colossi europei che hanno delocalizzato in Paesi soggetti ai dazi una porzione significativa della loro catena produttiva per il mercato statunitense: tra questi, Ikea (Vietnam) e Nestlé (Malesia).
C’è poi il caso svizzero. La confederazione elvetica potrebbe subire un dazio del 31% sulle esportazioni negli Stati Uniti che andrà a colpire soprattutto colossi farmaceutici come Roche e Novartis e big del lusso come Rolex e Richemont. L’impatto sui bilanci di quest’ultimi gruppi potrebbe però rivelarsi limitato dal momento che l’industria del lusso si rivolge a clienti meno sensibili al prezzo e quindi ha maggior margine per aumentare i listini.
Più nel medio termine, alcune aziende potranno spostare negli Stati Uniti la produzione per il mercato locale. Una decisione così rilevante, però, richiede anzitutto che si diradi l’incertezza. In questo momento la confusione sui dazi americani e sulle eventuali ritorsioni degli altri Paesi è tale che nessun gruppo appare in grado di pianificare nuovi investimenti sull’aumento della capacità produttiva negli Stati Uniti.
Resta poi da capire se alcune produzioni siano in ogni caso rimpatriabili: per esempio, negli Usa si troverà manodopera disposta a produrre scarpe o magliette? E con quali costi?