Il 14° summit BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) è quest’anno ospitato dalla Cina, bensì il meeting sia online. L’obiettivo è sempre lo stesso: condannare l’espansione delle “alleanze occidentali” e cercare di puntellare nuovi modelli “alternativi” sul piano dello sviluppo economico e delle convergenze internazionali.
Alla vigilia del Summit, Xi Jinping ha ribadito che a suo parere l’ordine mondiale è ormai multipolare, aggiungendo che le sanzioni contro la Russia sono “arbitrarie” e “un boomerang”. Una posizione che nel forum trova consensi: solo il Brasile di Bolsonaro all’Onu ha formalmente condannato l’invasione, la Cina ha votato contro, India e Sudafrica si sono astenuti.
Tuttavia, il summit BRICS appare oggi come un’arma spuntata. Lanciato nel 2009, l’anno in cui il G20 diventava strategico per coordinare il salvataggio dell’economia mondiale dopo la greve crisi finanziaria internazionale innescata negli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio politico delle potenze emergenti. E in effetti i cinque BRICS da soli oggi fanno quasi un quarto (23%) dell’economia mondiale e il 17% degli interscambi. E possono contare sul 40% della popolazione mondiale.
Il problema è che i governi BRICS sono uniti da un nemico comune (il primato occidentale), ma divisi su quasi tutto il resto. Sono, in particolare, tesi i rapporti tra Cina e India, sui lati opposti della barricata nell’Indo-Pacifico, tanto che New Delhi fa parte del ‘Quad’ (con Stati Uniti, Giappone e Australia) e del nuovo Indo-Pacific Economic Framework lanciato da Biden, che mirano a ribilanciare l’egemonia cinese.
Ma, al contempo, c’è qualcosa che lega Pechino e New Delhi: le importazioni di petrolio russo a prezzi scontati dopo le sanzioni europee. Ecco perché per l’Occidente il summit Brics è comunque un segnale. Se da un lato il meeting evidenzia le divisioni tra le economie emergenti, dall’altro sottolinea la loro crescente capacità di controbilanciare le decisioni prese a Washington e nelle capitali europee.