Da decenni il mondo che conta ha cercato di spingere il più possibile sulla globalizzazione dell’economia. Ma forse abbiamo accelerato troppo. Prendiamo ad esempio un prodotto di largo consumo e certamente non annoverabile tra quelli innovativi e tecnologici: una semplice matita.
Come evidenzia brillantemente Laura Canali (Limes), cominciamo da uno degli elementi principali: il legno. Proviene dal Canada. Passiamo ora alla materia imprescindibile, ovvero la grafite: la fornitura è garantita dalla Cina. Ma abbiamo appena cominciato con l’elenco degli Stati coinvolti.
La vernice che riveste la parte esterna è un prodotto petrolifero, che fa entrare in gioco la Libia. C’è poi quel particolare a cui è ancorata anche la gomma: la parte ottonata è costituita da rame (Cile) e zinco (Australia), mentre la gomma è formata da zolfo (Sicilia) e lattice (Indonesia).
Riassumendo, quanti paesi sono coinvolti nella produzione di una matita? Non meno di 7. Abbiamo forse spinto eccessivamente in avanti l’asticella della globalizzazione economica? Prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno messo in crisi le catene globali del valore, ma il nocciolo del problema è in realtà già emerso da tempo.