Dopo mesi di reciproche minacce di una rottura che porterebbe al “no deal”, il negoziato sulla Brexit arriva alla settimana decisiva fra concessioni da entrambe le parti e segnali che un accordo è possibile.
L’accordo alla fine si farà perché il “no deal”, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Ue senza alcuna intesa che rimpiazzi 45 anni di patti attraverso la Manica, sarebbe un danno troppo grande sia per Londra che per l’Unione dei 27. E le due parti si rendono conto che è necessario evitare alla fine dell’anno “la doppia botta” di una Brexit senza accordi mentre infuria ancora la pandemia.
Sarebbe paradossale che un accordo commerciale fra Gran Bretagna e Ue saltasse soltanto per gli ultimi tre punti rimasti irrisolti nel negoziato, gli aiuti di stato e i diritti di pesca, oltre al rebus del confine fra le “due Irlande”, quella repubblicana e quella britannica, che dal primo gennaio prossimo diventerà il confine tra Ue e Regno Unito.
C’è tempo fino al 31 dicembre, termine della fase di transizione in cui tutto resta immutato. La logica degli interessi reciproci è riassunta da Carolyne Fairbanks, presidente della Confindustria britannica: “Il no deal sarebbe troppo dannoso per tutti”. Anche l’Italia, che esporta in Gran Bretagna più di quanto importa, conta di scongiurare un “no deal” che provocherebbe dazi sulle merci.
Il nostro Paese può contare anche sul fatto che in questi giorni il leader dell’opposizione laburista Keir Starmer è passato in testa nei sondaggi sul premier conservatore, facendo risuonare un campanelllo d’allarme a Downing Street, trasformata da Johnson in Clowning Street con il suo comportamento condito di zig-zag e improvvisi dietrofront. Ecco perché non sono esclusi altri colpi di scena e ulteriori rinvii.